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Qui Trento. Sciamani, chi siete? Cosa fate?
Mostre
Sono degli sciamani o degli artisti che hanno disegnato sulle pareti di Lascaux? «Sciamani e artisti, artisti perché sciamani», è la risposta di Edgar Morin, sostenitore – come già Paul Klee aveva scritto – del fatto che «noi imitiamo nel gioco dell’arte le forze che hanno creato e creano il mondo». Nel viaggio che MUSE, Mart e METS, insieme alla Fondazione Sergio Poggianella, hanno organizzato a Palazzo delle Albere di Trento e al Museo etnografico di San Michele sull’Adige – quasi come un ponte, come da ponte fa lo sciamano del resto, tra il mondo umano e quello animico – attraversiamo il senso del possibile, oggi tanto urgente quanto attuale, figlio della capacità umana di spingersi oltre l’esistente e di concepire l’inedito.
Gli oltre cento reperti e manufatti originari della Cina, della Siberia e della Mongolia (a cura di Sergio Poggianella con Elisabetta Flor, Luca Scoz e un comitato scientifico composto da Stefano Beggiora, Nicola De Pisapia, Fabio Martini e Lia Emilia Zola per il MUSE, e con Micaela Sposito e Luca Faoro per il METS) insieme a una selezione di opere di artisti contemporanei (scelte dal curatore del MART Gabriele Lorenzoni e dall’antropologo Massimiliano Nicola Mollona), in cui il dialogo con lo sciamanismo è dichiarato o lampante, possono essere riletti, o letti per la prima volta, seguendo tracce diverse e con diversi atteggiamenti, ma in nessun caso si riuscirà a restare indifferenti.
A Palazzo delle Albere il percorso espositivo prende le mosse da un costume (in mostra sono esposti differenti esemplari), appartenuto e indossato da uno sciamano. Perché? Perché il costume, spesso ricoperto da pendenti metallici, che si attivano e producono suoni, e da lunghe frange, dette serpenti, che sfocano i contorni corporei dello sciamano, è un elemento fondamentale, esplicita manifestazione dei poteri, armatura contro i pericoli e rappresentazione del mondo degli spiriti. Una delle prime, e fondamentali, precisazioni che i curatori Flor e Scoz fanno è che lo sciamanesimo, o sciaminismo, dell’aera compresa tra Nord della Cina, Mongolia e Siberia, è che si tratta di un culto naturale mai indotto da sostanze psicotrope: ecco dunque perché parliamo di attivazione, e non di pura ornamentazione, degli elementi che ricoprono il costume.
Che il mondo sia vivo, dunque che le piante, gli animali, le rocce e l’acqua hanno uno spirito da rispettare e considerare, che la responsabilità sia personale e che l’equilibrio sia fondamentale per mantenere armonia dentro a sé stessi, la comunità e l’ambiente sono concetti fondamentali, condivisi per esempio dallo sciamanesimo siberiano e mongolo, che spostano l’accento e l’attenzione sul culto, e non dunque sulla religione, legata alla natura. C’è, in tal senso, un proverbio mongolo che recita «Andremo da dio, lo saluteremo e se si dimostra ospitale resteremo con lui altrimenti risaliremo a cavallo e verremo via». Ecco che, a proposito di cavallo, nel suo viaggio spirituale lo sciamano tiene sempre tra le mani il suo tamburo – in mostra è esposta una grande varietà di forme decorate con nastri e frange simili a quelle dei costumi – il cui suono ricorda proprio il galoppo del cavallo, che può essere regolare o frenetico, pronto a cambi di velocità e di ritmo. E c’è di più, perché il tamburo può contenere al suo interno una statuetta di legno identificativa di un antenato o di uno spirito ultraterreno.
Parliamo dell’ongon, con cui gli sciamani hanno un legame stretto, quasi viscerale: a quest’entità, trasmessa di generazione in generazione, ricorrono infatti nello svolgimento delle loro mansioni, quando – vale a dire – l’equilibrio si rompe e il rischio di effetti dolorosi incombe. È innegabile che il bisogno, umano, fin troppo umano, di immaginare vie inedite per la nostra vita, di fronte a una simile raccolta esploda. Questo accade probabilmente per l’urgenza che avvertiamo, impellente, di cambiare idee e comportamenti riguardo alla nostra vita sul pianeta che ci ospita, o di creare di un mondo che ancora non c’è, perché quello attuale non basta.
La tendenza all’oltre, più o meno manifesta in ogni individuo, viene sollecitata e solleticata dall’incontro, oltre che con costumi, tamburi, bastoni e ongod, con maschere rituali – pur non molto diffuse tra le popolazioni dell’Asia centrale e settentrionale, dove i volti degli sciamani sono più spesso coperti da frange che scendono dal copricapo, ma aventi la stessa funzione di dare allo sciamano una nuova identità, affine allo spirito che lo aiuterà nel suo viaggio – e con reperti archeologici datati al Paleolitico superiore europeo, che rappresentano figure umane con maschere animali e riportano alla dimensione del sacro dei nostri antenati, molto spesso associata, a torto o a ragione, al tema dello sciamanismo. Ne è esempio straordinario un ciottolo, rinvenuto nel 1884 in una cava di argilla presso Tolentino (Macerata), raffigurante una figura metà animale e metà umana (teriomorfo). Il corpo femminile, con seni e triangolo pubico ben evidenti, ha testa animale, raffigurante un erbivoro (asinide), mentre sul lato opposto è raffigurata l’immagine del muso di un altro animale e la ramificazione di un palco di cervo.
Sempre a Palazzo delle Albere, il documentario Dialoghi con l’antropologo Sergio Poggianella, con la regia di Nicolò Bongiorno, ripercorre le tappe che hanno portato alla nascita della collezione sciamanica della Fondazione Sergio Poggianella, che in parte abbiamo attraversato in una tensione in crescendo verso la creazione e ricreazione del mondo che culmina in un’esperienza sensoriale immersiva che esplora la dimensione individuale dello stato alterato di coscienza, elemento centrale dello sciamanismo che oggi può essere studiato, interpretato e anche riprodotto grazie alla tecnologia applicata alle scienze cognitive.
E qui, in balia di uno stato che si situa tra la condizione sciamanica e la semi-coscienza, attraversati da questa tensione creativa, si offrono alla nostra coscienza e conoscenza Buby Durini insieme a Joseph Beuys, artista sciamano per eccellenza, che ha inteso l’arte come atto terapeutico per sé e per il mondo, secondo una visione antropologica radicale di un’umanità oltre il capitalismo. Difesa della Natura è l’opera, vera e propria utopia concreta di rigenerazione psichica e spirituale che denunciava – anzitempo – l’attuale catastrofe ecologica invitando allo sviluppo di pratiche di agricoltura decentralizzata, collettiva e sostenibile, che apre la sezione contemporanea.
Incontriamo, lungo il percorso, Chiara Camoni, che esplora il mondo sciamanico attraverso la creazione di oggetti in terracotta o elementi organici che ricalcano gli strumenti utilizzati nei rituali primitivi, Alexandra Sukhareva, Anna Perach, Mali Well e Marina Abramovic, impegnata per quattro giorni e sei ore nell’atto di lavare con una spazzola un cumulo di grandi ossa animali mentre recita traumi nazionali e personali. Il rituale di purificazione, in cui risuonano echi della cultura sciamanica, denuncia l’impossibilità di cancellare le drammatiche conseguenze della guerra (Making of Balkan Baroque in Venice). Spazio poi a David Aaron Angeli, Alighiero Boetti, Ramon Coelho e Claudio Costa, che negli anni ’80, in un percorso di allontanamento dalla psicanalisi tradizionale e dallo strutturalismo, è tornato al primitivismo e allo sciamanesimo di Beuys recuperando la manualità e il vissuto. E ancora Bracha Ettinger, Angelo Filomeno, Hamish Fulton, che da sempre attraversa il mondo a piedi, Allan Graham, Louis Henderson, Karrabing Film Collective, Suzanne Lacy, Attilio Maranzano, Si On, Ben Russell, María Sojob, Alisi Telengut, Franco Vaccari.
Non mancano, per concludere, Jimmie Durham, che si avvicina alle pratiche sciamaniche con quel fare di combinare rifiuti della società consumistica con elementi provenienti dal mondo naturale, e Daniel Spoerri che mette così in evidenza la similitudine tra il genoma umano e quello animale: «sappiamo ormai con certezza che il codice genetico è universale, vale a dire comune a tutti gli organismi siano essi batteri, piante, animali o esseri umani. Il che significa, in parole povere, che tutti gli organismi viventi, uomo incluso, hanno avuto origine dalle stesse cellule».
Il teschio decorativo tibetano e la maschera rituale polinesiana che Spoerri usa come paraphernalia sciamanici sembrano svelare che come lo sciamano risuona col mondo e se ne lascia attraversare, così l’osservatore risuona con lui e, attraversando la mostra, ne ripercorre i gesti, le emozioni e le sensazioni. Comunicare con l’invisibile è possibile, e per questa via paiono emergere le esperienze epifaniche.