08 ottobre 2024

Raccontare l’artista prima che l’icona. Munch e la grande mostra di Palazzo Reale a Milano

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Fino al 26 gennaio 2025 Palazzo Reale ospita “Munch. Il grido interiore”, il lungo percorso espositivo che esplora la vita e l’opera del pittore norvegese. Ma come raccontare la storia del genio oltre “l’icona?”

Edvard Munch, L’artista e la sua modella, 1919–21. Olio su tela, 128x152,5 cm Photocredits Munchmuseet

Sarebbe troppo facile, probabilmente, parlare di Edvard Munch (1863-1944) e rapportare quanto già si conosce con la tristezza, l’angoscia e alla dolenza che hanno caratterizzato per tutta la vita l’uomo e, di conseguenza, le sue opere. Ci sono artisti che vengono preceduti, addirittura sovrastati, blindati, recintati, talvolta penalizzati, dalla loro stessa biografia dannata e maledetta; per qualcuno, fino al punto da oscurarne la grandezza dell’espressione dei lavori e della loro storicizzazione. E questo maledettismo endemico e irrisolvibile, è ciò che ha reso artisti enormi – come Van Gogh, Modigliani, Bacon, Soutine ed infiniti altri, dalla pittura, alla musica, passando per la poesia o il cinema – delle vere e proprie rockstar, insomma: da ammirare e inneggiare, spesso arbitrariamente e in maniera confusa, con la curiosità che si dedica alla stranezza, all’anomalia e non, come avrebbero meritato, al genio: trasformando la conoscenza dell’autore e l’approccio all’opera del pubblico in qualcosa di inevitabilmente più blockbuster. Fino al declassamento della grandezza, che risulta mortificata, vaga e intrisa solo di una narrazione e di una soddisfazione superficiale per lo spettatore, che ne esce stordito e non arricchito (sebbene nell’immediato sia convinto del contrario). Questa condizione svilente avviene non soltanto rispetto alle biografie disperate che tanto seducono il nostro immaginario, ma anche all’interno dell’abuso della somministrazione dell’immagine più rappresentativa, del quadro più “iconico”, dell’oggetto più totemico, del soggetto più conclamato, del feticcio più riconosciuto, con un marketing trasversale, generalista, che alimenta meccanismi di massa e di perseguimento di cifre e volumi oltre ogni record, fino al rischio di decentrare l’essenza, in nocciolo della questione, il baricentro delle ragioni di un artista e della costruzione di senso di una mostra a lui dedicata che dovrebbe avere ragione d’essere in quanto necessaria e urgente, e non in quanto funzionale e conveniente.

Edvard Munch, Madonna, 1895/1902. Litografia stampata a colori, 60,5×44,3 cm Photo © Munchmuseet

La mostra Munch, il grido interiore a Palazzo Reale risolve entrambi i morbi dilaganti e appena citati del decennio delle mostre a tutti i costi: rivelandosi un’imponente, ma leggera e godibile, esposizione. Questo per coerenza filologica libera ma razionalizzata, suggestioni proposte e riuscite, slanci comunicativi individuati, intuizioni divulgative, moti passionali (anche struggenti), volontà didattiche. La mostra, a cura della storica dell’arte Patricia Berman, si presenta sobria e varia, ragionata e proposta anche con un senso critico che non si affida esclusivamente alla banalità rassicurante della cronologia ma che, anzi, lascia spazio ad un’emotività narrativa – anche per macroaree sentimentali – che ci fa sentire liberi all’interno di un mondo oscuro, ombroso, inquieto.

Edvard Munch, Le ragazze sul ponte, 1927. Olio su tela, 100,5×90 cm. Foto Halvor Bjørngård ©Munchmuseet

La conseguenza virtuosa è dimostrata dal fatto che si può costruire una mostra, anche così che importante, facendo rischiosamente a meno del dipinto-più-noto, L’urlo: nella mostra a Palazzo Reale è infatti presente solo in versione litografica poiché, come spiegato, spostarlo dalla Galleria Nazionale di Oslo sarebbe stato troppo rischioso per il fragile stato di conservazione dell’opera. Finalmente la biografia dell’artista, per quanto sofferta, torturata e tormentata sia, non ne scavalca il lavoro: il percorso espositivo immerge infatti lo spazio in un’atmosfera delicata, suggerendo il sussurro, il silenzio, il soffio, come codice estetico della mostra.

Edvard Munch, L’Urlo, 1895. Litografia, 35,4×25,3 cm. Photo © Munchmuseet

La traiettoria cronologica, infatti, lascia il passo a quella tematica, la quale si intreccia con quella geografica; quest’ultima, poi, si sovrappone di nuovo a quella cronologica, ma trova una scia inedita in una verticale coloristica o compositiva. Tutto questo per sottolineare come un “ecosistema mostra che funzioni, oggi, non possa avere delle impalcature solide senza deroghe che non tengano conto della liquidità dei temi (e quindi della liquidità degli individui): inevitabilmente incastrati tra loro, ed è un po’ anche la lezione pittorica di Munch, ad insegnarcelo. Solo allora il racconto di un dolore, di un’angoscia, di una desolazione, di un abbandono, di una disperazione, di una depressione irrisolvibile potrà dirsi maturo al pari di come mature – poiché accettate e risolte – erano le visioni di Edvard Munch. Solo quando una cosa non si dimentica dell’altra, il cerchio si chiude in maniera sorridente, nonostante tutto.

Edvard Munch, Notte stellata, 1922–24. Olio su tela, 80,5×65 cm. Photo © Munchmuseet

Un accento importante, infine, va posto sulla dimensione intima, pur ingombrante, della verticale personale, a tratti “riservata”, dell’artista. Si cammina, infatti, come in una serie di stanze di una dimora angusta della mente e dell’emotività, tra idee e sogni o cose e fatti. Le pennellate che si possono ammirare da vicino grazie alla collaborazione tra Arthemisia e il Museo Munch di Oslo rivelano stati d’animo che divengono anche titoli di alcuni dei dipinti in mostra: angoscia, Malinconia (1901), Disperazione (1894), tormento; ma anche velature sparse di speranza, rinsavimenti momentanei e amore (la versione de Il bacio del 1897 a cui e dedicata una piccola ma densissima stanza è assolutamente degna di nota ulteriore). Il bacio è tra le opere più memorabili, non soltanto perché, nella contraddizione sempre tendente al lato sinistro e oscuro del mondo che caratterizza il pittore norvegese, non ci si aspetta un omaggio così delicato e sincero ad un sentimento tanto rincuorante, ma anche perché raramente la storia dell’arte degli ultimi due secoli ha partorito un’immagine di una tale delicatezza, potenza e iconicità che ipnotizza come se ci si trovasse in un rapporto a tre cuori, che coinvolge sempre lo spettatore, tanto intensa risulta. I due amanti, infatti, che diventano nei colori, nei segni della pittura e nei volumi compositivi un corpo solo, risultano quasi essere indifferenti a ciò che accade loro attorno, pur facendone parte, essendone parte, senza pretese esibizionistiche, della sua conseguenza esclusiva, simbolica, che “guarda sempre altrove” come direbbe Maurice Maeterlinck. La loro è la materia della segretezza, del nascondimento. Il mondo è alle loro spalle, oltre la finestra e a loro non interessa. Sono avvolti da una bolla, da una sfera che non c’è, che li colloca su un’isola che non c’è, su un pianeta che non c’è. Dove tutto è nuvola, empatia, ardore giovanile che si vive solo con intimità, sobrietà, delicatezza, discoprimento lento, poesia, ritrosìa, lieve ma tenace; luogo senza luogo in cui ogni cosa è sentore di una mortalità, di una transitorietà che – però – conferisce valore all’attimo e, dunque, al contatto, al linguaggio sobrio delle carni, il primo centimetro verso l’età adulta. Verso l’immortalità, anche una volta morti.

Edvard Munch, Il bacio, 1897. Olio su tela, 100×81,5 cm. Photo © Munchmuseet

Per poi terminare il tutto con un’ultima sala in omaggio agli autoritratti di Edvard Munch. Ed è qui che si sente il vero e proprio grido interiore: attraverso una serie di autoritratti, di immagini di se stesso che sono evidentemente proiettate verso un dentro perduto, ameno, che incute timore, pieno di bui e squarci che rendono vitreo l’artista e l’ambiente attorno, oltre che pieno di sconcerto chi lo osserva. Nei suoi autoritratti, Munch sembra oscillare con lo sguardo tra la necessità impellente ed asfissiante del chiedere aiuto e, contemporaneamente, abbandonarsi ad una condizione di accettazione del dolore che quasi sfocia in una risoluzione di sé dolente ma totalizzante. Così come in Orwell «tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri», Munch appare come un povero uomo tra i poveri uomini: solamente, un po’ più povero degli altri, per le crocifissioni che il suo stare al mondo ha dovuto patire in nome delle colpe senza colpa che l’animo umano sa autoinfliggersi a causa del terribile e della sofferenza quando l’assale.

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