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Il Museo del Novecento a Milano ci sorprende per la capacità di valorizzare l’attività artistica di alcuni dei suoi protagonisti dimenticati, attraverso mostre retrospettive che permettono al visitatore di ripercorre la storia delle avanguardie artistiche milanesi in rapporto alle evoluzioni di quelle internazionali. Con la mostra promossa dall’Assessorato alla Cultura e Polo Arte Moderna e Contemporanea del Comune di Milano intitolata “Remo Bianco. Le impronte della memoria” a cura di Lorella Giudici in collaborazione con la Fondazione Remo Bianco, riscopriamo una personalità irrequieta, estrosa e complessa. L’artista fedele alla libertà espressiva, dall’attività frenetica di un eclettico ricercatore solitario e sperimentatore di nuovi materiali e linguaggi da scoprire, si racconta con oltre 70 opere realizzate tra il 1948 e 1980 e documenti, fotografie, cataloghi e altri preziosi materiali esposti nella Sala degli Archivi. Remo Bianco (1922-1988) si è formato ai corsi serali a Brera, cresciuto nella Milano popolare tra le due guerre in una casa di ringhiera dove viveva con la madre cartomante e la sorella Lydia, prima ballerina alla Scala, sfugge a qualsiasi catalogazione.
L’artista informale sui generis, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta produce le prime Impronte, calchi in gesso, cartone pressato ricavato da segni lasciati sull’asfalto, comunque tracce di oggetti quotidiani, varie chincaglieri, giocattoli o attrezzi; opere che svelano la sua ossessione per il tema dell’effimero: elogio alla precarietà dell’esistenza, condiviso con il suo mentore Filippo De Pisis, incontrato a diciassette anni, di cui divenne amico.
Il fil rouge del suo lavoro è la persistenza della memoria, dall’attitudine proustiana con l’ossessione di recupere “le cose più umili che di solito vanno perdute”, come scrisse nel suo Manifesto dell’Arte Improntale del 1956. Dei primi anni Cinquanta sorprendono i Sacchettini-Testimonianze, monete, conchiglie, piccoli giocattoli, oggetti di poco valore colorati imbustati, catalogati dentro a sacchetti di plastica, fissati su legno seguendo una disposizione regolare e appesi come un quadro tradizionale, realizzati prima dei “pacchettini” di Christo, e della Accumulazioni di Arman.
Di questi anni sono anche le prime opere tridimensionali- i 3D, esposti la prima volta alla Galleria il Cavallino a Venezia nel 1959, in materiale plastico trasparente o vetro e, in seguito su legno, lamiera e plexiglas colorato, assemblaggi in cui l’immagine è la combinazione di figure poste su piani differenti col fine di valorizzare profondità sottese capaci di giocare sulla trasparenza e l’alternanza tra vuoti e pieni. Piacciono i suoi Collages realizzati dalla seconda metà degli anni Cinquanta agli anni Ottanta, creati dopo un soggiorno a New York, dove incontra Pollock, in cui mescola la tecnica dripping con altri materiali come tela, carta o stoffa.
Di Remo Bianco sono noti i Tableaux Dorés, iniziati nel 1957 col fondo bicolore, trattato a olio o smalto, impreziositi da foglie d’oro, che presentano una parte bianca accostata a colori primari. Altre opere includono paglia o stoffa. Al ritorno di un viaggio in Persia nel 1961 realizza una serie di Pagode per una mostra che doveva tenere a Venezia, sculture simili a grandi castelli di carta o guglie, torrette policrome visionarie in cui Occidente e Oriente, precarietà e leggerezza si mescolano. Le sue opere ruotano intorno alla metafora della memoria, tra frammenti di materia e tracce di un tempo vissuto, reperti emozionali raccolti e catalogati come materiali rigenerativi del fare arte. Dalle palline di polistirolo, agli oggetti più insignificanti, l’arte si fa con tutto perché ciascun materiale segna, documenta, reperta l’istante della sua debordante ricerca discontinua ma a suo modo rigorosa di ricercare nuove soluzioni formali assemblando materiali diversi. Le opere in mostra compilano una sorta di diario visivo della sua vita rocambolesca e personalità poliedrica, apparentemente scanzonata, ma dall’essenza malinconica. A Milano Remo Bianco frequenta Carlo e Renato Cardazzo, Lucio Fontana, e gli esponenti del movimento Nucleare, poi Pierre Restany, fondatore del Nouveau Realisme. Attraversa come una meteora le seconde avanguardie artistiche senza farne parte. Dal 1965, l’artista conia la definizione di “Arte Sovrastruttuarale”, comprensiva di oggetti, cose e persone che esprimono la volontà di fissare nella memoria ricordi e tracce della realtà, come testimoniano le Sculture neve, teatrini poetici che racchiudono oggetti comuni, giocattoli ricoperti di neve artificiale e disposti in teche trasparenti. Dal 1972, Bianco sconfina nella performance, sconvolgenti sono i suoi Quadri parlanti, esposti nel 1974, il più noto è “Scusi signore…”, un autoritratto ieratico con dito puntato in cui inserisce la registrazione della sua voce per invocare l’ attenzione allo spettatore, come a dire: << guardami, ascoltami e non dimenticarmi! >>
Jacqueline Ceresoli
Dal 5 luglio al 6 ottobre 2019
Remo Bianco. Le Impronte della Memoria
Museo del Novecento, Piazza Duomo Milano