Come una giovane generazione di artiste e artisti elabori la propria pesante eredità culturale, plasmata da standard estetici e sociali, valori, modelli, icone o aspettative sulla figura della o dell’artista è uno degli interrogativi a cui Renaissance prova a rispondere mettendo in luce le posizioni artistiche transdisciplinari dei 15 protagonist* che condividono l’impegno per un esame rigenerativo e critico del patrimonio culturale.
Qualcun* indaga rituali, pratiche spirituali, storie di migrazione o storie familiari tramandate, altr* si concentrano sull’analisi critica e la rivalutazione di immagini pervasive della cultura pop, finzioni urbane o ruoli di genere stereotipati in letteratura, cinema, design, architettura o pubblicità, divers* si dedicano al riciclo di prodotti di scarto dell’industria creativa in cui a volte operano, ponendosi all’intersezione fra arte figurativa e arti applicate, tutt* tematizzano questioni di appartenenza, e concordano sull’idea che l’identità culturale sia qualcosa di fluido, per nulla scolpito nella pietra. Loro sono AliPaloma, Monia Ben Hamouda, Costanza Candeloro, Filippo Contatore, Isabella Costabile, Binta Diaw, Giorgia Garzilli, Sophie Lazari, Lorenza Longhi, Magdalena Mitterhofer, Jim C. Nedd, Luca Piscopo, Raphael Pohl, Davide Stucchi e Tobias Tavella, e ognun* ha trasformato i noti concetti rigenerativi di “Rinascimento” o “Arte povera” nel “qui ed ora” e ha dato loro un nuovo significato secondo la propria pratica – dalla scultura alle installazioni, dalla pittura ai disegni, passando per video, fotografia e performance.
Estesa lungo gli ultimi due piani di Museion, Renaissance – il cui design è stato affidato ad (ab)Normal – è a cura di Leonie Radine e prende le mosse da una spina nel fianco, quella del patriarcato, dalle cui catene occorre liberarsi: sono queste due opere di AliPaloma, che sfida gli stereotipi di genere, intitolate rispettivamente Dorn im Auge e Unchained. Le catene, in vetro trasparente, riflettono sull’esperienza di vivere in una società patriarcale ma anche la speranza in un cambiamento positivo – che necessita di un sostegno collettivo nella lotta per l’uguaglianza e l’emancipazione, a cui dà forma Resist, la nuova scultura a forma di boa realizzata con il vetro rotto, fuso e colato della performance Allen Alles? (2021). A proposito di emancipazione, Costanza Candeloro traduce in concreti oggetti poetici parole, segni e simboli: Living Currency è, per esempio, la trasposizione in due monete di ceramica sovraimpresse delle analisi di Silvia Federici sul lavoro non retribuito della donna, mentre Lolita turns 67 è il trasferimento in scultura, di ceramica e visibilmente segnato dall’età, del classico letterario Lolita.
Come Candeloro riflette, nelle sue opere riflette sull’enorme disagio di fronte agli ideali di bellezza che propagando una perfezione impeccabile (Sleeping Beauty è un ulteriore esempio) e mira a sviluppare una coscienza critica, così Lorenza Longhi invita a guardarsi – letteralmente – allo specchio per meditare su ruoli sociali, status symbol e ideali di bellezza proposti dalle pubblicità dei marchi di lusso. “Still, The Standard” è la scritta che si legge sopra i collage esposti (The Rocket, Un Eté, The Maid), che Longhi utilizza per minare gli imperi della concezione capitalistica e mettere in evidenza l’obsolescenza dei classici nella definizione dei nostri standard estetici e sociali.
Con un suo personalissimo linguaggio artistico contemporaneo, anche Davide Stucchi rinegozia la rappresentazione dei corpi, della mascolinità queer, della sessualità e dei rapporti di classe. Orchestrando un’immaginaria sonata al chiaro di luna, al Museion Stucchi si serve di oggetti di uso quotidiano, universali, così familiari e ordinari per tutti noi che diventano quasi invisibili: sono qualcosa “che serve a qualcosa”, che a prima vista viene assorbito in una finalità di usi, direbbe Roland Barthes. Parliamo di calzini, calzini di spugna ora intessuti in una rete metallica di color nero che ricordano il motivo della luna che si specchia nel mare (Ironed Moon), o calzini da tennis, bianchi e neri che pendono da una recinzione per cantieri restituendo l’immagine di un pianoforte (Suite for Suit). Ci sono anche dei fili di tela che aderiscono a due griglie in plastica usate per l’imbiancatura: è Laces with no traces, che dà origine a un intimo duetto in cui trovano sintesi le antitesi di genere, origine e classe.
Il percorso prosegue con una selezione di fotografie di realismo magico di Jim C. Nedd, che esplora gli interstizi fra nostalgia e futuri alternativi fondendo ricordi e proiezioni visive nei suoi scatti – «sensuali voli di immagini e storie visive si energia e identità, ritmo ed ebbrezza, splendore e pietristico». Di fronte alle opere (come Sugar Hill, Fuori Grotta#2 o Sofia) predomina l’incertezza: c’è presenza o assenza di corpi e azioni? Ci si muove, da qui, verso l’installazione di Magdalena Mitterhofer, Confessional, un vero e proprio confessionale ricostruito quale riferimento alla cappella della colonia estiva del villaggio Eni, di cui fa parte il film Corte, che segue un gruppo di millenials nelle vacanze del Villaggio Eni di Corte di Cadore esaminando i nuovi valori dei giovani in confronto alle ideologie patriarcali dello scrittore Noel. Con una tecnica diversa, ma sempre sulle relazioni tra generazioni, e anche tra luoghi e sistemi economici, su cosa unisce e cosa separa, riflette Raphael Phol disponendo coreograficamente nello spazio oggetti provenienti da contesti diversi, come tornelli e stampi per granite in alluminio (behind me the time before), che entrano in dialogo con un video (at its edge lies the bride’s forsaken shawl) di cui è protagonista un panettiere di Batumi.
Giorgia Garzilli invece fonde quotidianità e magia fino a confondere su cosa sia reale nella serie di piccoli dipinti ispirati agli universi visivi dell’industria cinematografica di Hollywood e della cultura pop dell’era televisiva pre-internet. Insieme a questa serie, e al più grande quadro Never odd or even, tutti profondamente inscritti nella cultura popolare occidentale, Garzilli presenta anche un’altra serie di opere che sono scene in miniatura realizzate su pannelli di legno inseriti in piccole borsette in pelle della stilista Charlotte Weiss (I hate what I love and I love what I hate) ironizzando affettuosamente sui desideri e le aspettative evocati dai film e dalla moda. Anche Luca Piscopo trae ispirazione dal cinema hollywoodiano (e dal neorealismo italiano e dal thriller) nelle fotografie in bianco e nero – La Camera ardente – con cui mette in scena suoi conoscenti nei paesaggi urbani di Bolzano e Merano ritraendoli in ruoli differenti. Il corto Poison Resort invece è un tentativo di rappresentazione dell’esperienza transgender con una propspettiva personale e psicologica che non pone l’accento sui problemi di integrazione.
Salendo di un piano si incontra l’installazione composta da elementi naturali e industriali, Atmosphere Conductor: Briging the Urban-Natural Divide, di Tobias Tavella, che è solito indagare gli effetti della presenza umana sui processi biologici, geologici e atmosferici del pianeta riunendo e trasferendo materiali da vari contesti. L’installazione si presenta come una collina di terra, a rappresentare l’irregolarità del terreno naturale, al centro della quale è collocato un tamburo, realizzato con un’antenna parabolica riciclata, che ogni visitatore può potenzialmente suonare e che dà concretezza visiva al potere del suono nella fusione di arte e natura. Si trovano a pochi passi le sinuose e fluttuanti sculture in acciaio della serie Aniconism as Figuration Urgency, di Monia Ben Hamouda, vincitrice di una delle più alte borse di studio per l’arte emergente in Europa, che la Fondazione Vordemberge-Gildewart ha conferito in occasione della mostra. Le opere, sotto le quali sono distribuite delle spezie (curcuma, curry o peperoncino), che delineano un paesaggio colorato, sono forme calligrafiche raffinate e impregnate di simbologie e rituali culturali religiosi e ricordano un processo metamorfico, come di un dispiegamento di un albero genealogico.
Ci si muove, sul finire del percorso, tra le sculture di Isabella Costabile, utilizza oggetti di scarto o di uso quotidiano abbandonati dando loro nuova voce e nuova presenza spirituale. Costabile trasforma, per esempio, imbuti da cucina e paralumi in ricevitori di pensiero (Thought Converter), sempre con uno sguardo amorevole verso la storia, la temporalità, la vita e il potere di comunicazione di questi oggetti. Sophie Lazari sceglie invece di richiamare il fenomeno del tarantismo, confrontandosi con l’antica credenza secondo cui il morso di un ragno poteva scatenare reazioni isteriche soprattutto nelle donne, con l’installazione ritus resurrections, che concorre alla definizione di un’atmosfera magica all’interno della quale il suono costituisce la via per liberarsi dall’oppressione sociale.
Chiude il percorso Binta Diaw, che si interroga sulle forme di trasmissione del patrimonio culturale e sulla percezione dell’italianità o dell’africanità riflettendo sulle proprie esperienze di donna nera in un mondo improntato al modello occidentale. In occasione di Renaissance, Diaw presenta The Land of Our Birth Is a Woman, un patchwork cucito da diverse donne con background migratorio residenti in Alto Adige – l’opera nasce nel contesto di una residenza presso lo spazio Lungomare di Bolzano, nel 2021, dove l’artista aveva presentato un progetto che comprendeva diverse azioni partecipatorie con lo scopo di ripensare criticamente il territorio.
Diaw, che offre un momento di consapevolezza e discussione sulle rappresentazioni stereotipate, non è la sola a riattivare una pratica antica, nel suo caso eseguita per lo più da donne: anche Filippo Contatore, al piano inferiore indaga con una serie di sculture e un video (Forge Activation) scandito dal suono del metallo, il mestiere tradizionale del fabbro, che è storicamente dominato dagli uomini.
In gioco, in questo caso e tutti gli altri casi, c’è il comportamento, il nostro comportamento all’interno di usi e costumi che possono evocare sentimenti di familiarità o possono impedire una relazione libera e non stereotipata. Renaissance stimola un approccio rigenerativo e critico con il proprio retaggio culturale: ogni opera funge da mediatore tra il soggetto e il mondo e in quanto tale, ognuna, ha un preciso scopo sociale e antropologico: ovvero quello di essere mezzo di significazione fluido, non scolpito nella pietra. Proprio come l’identità.
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