12 giugno 2024

Renato Mambor, la vita è relazione, come l’arte: la mostra alla Tornabuoni di Roma

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La galleria Tornabuoni Arte di Roma presenta una mostra che ripercorre tutto l’ampio arco di sperimentazioni del grande Renato Mambor, in occasione del decennale della scomparsa

Renato Mambor, Timbri, 1964, inchiostro da Bmbro e pennarello su carta, 50 x 72 cm Courtesy Tornabuoni Arte
Renato Mambor, Timbri, 1964, inchiostro da Bmbro e pennarello su carta, 50 x 72 cm Courtesy Tornabuoni Arte

Una mostra da non perdere, quella dedicata a Renato Mambor (Roma, 1936 – Roma, 2014), aperta fino al 28 settembre 2024 alla galleria Tornabuoni Arte di Roma. Mambor – questo il titolo della retrospettiva – è stata organizzata in occasione del decennale della scomparsa dell’artista romano, in collaborazione con l’Archivio Mambor e grazie alla consulenza scientifica di Maria Grazia Messina. L’esposizione consiste in una trentina di opere, selezionate appositamente per ripercorrere la sua pratica artistica dagli esordi alle ultime produzioni.

Sulla parete all’ingresso della galleria, compare una frase dello stesso Mambor che riassume perfettamente il concetto-cardine dell’intera sua ricerca e, di conseguenza, anche della personale dedicata al Maestro che fece parte della Scuola di Piazza del Popolo: «Non c’è niente e nessuno che sia veramente separato dal resto, la vita stessa si manifesta in relazione. Tra il pittore e il fare il quadro, tra il dipinto e lo spettatore… Questi Fili nell’arte sono ciò che ci lega ai compagni di strada, alla storia contemporanea, al passato, alle diverse forme d’arte».

Renato Mambor, L’uomo segnale, 1962, legno, tecnica mista, 60 x 110 cm Courtesy Archivio Mambor, Tornabuoni Arte

Infatti, nonostante la pluralità dei linguaggi utilizzati, l’artista si è sempre concentrato su alcune tematiche in particolare: la relazione con se stesso, con l’altro, ma anche l’osservazione, il linguaggio e la comunicabilità. Fili è anche il titolo dell’opera con cui si conclude la mostra in via Bocca di Leone 88. Tuttavia, questa installazione potrebbe essere letta anche come la prima, attuando l’auspicio dello stesso Mambor: «Vorrei che l’opera fosse riletta oggi dall’oggi. Ora che viviamo noi. […] L’artista non è colui che certifica il presente ma colui che mette i semi per il futuro».

Ad aprire il percorso espositivo è Senza titolo del ’58, una tempera su carta che testimonia una stagione sperimentale ancora fortemente influenzata dall’Informale. In questo caso l’artista si firma “Mambo”, mentre l’anno successivo partecipa ad una mostra alla Galleria Appia Antica di Roma intitolata Mambo(r), Schifano, Tacchi. Sempre negli anni Cinquanta, si avvicina al mondo del cinema e della recitazione, grazie ad un incontro casuale con Federico Fellini in un distributore di benzina sulla Tuscolana per cui lavorava all’epoca. In seguito ad un breve scambio di parole, il regista romagnolo decide di affidargli una piccola parte ne La dolce vita.

Renato Mambor, Tirare la fune, 1965, smalto su tela, 89 x 89 cm Courtesy Tornabuoni Arte
Renato Mambor, Tirare la fune, 1965, smalto su tela, 89 x 89 cm Courtesy Tornabuoni Arte

Negli anni Sessanta Mambor inizia a frequentare assiduamente lo studio di Tano Festa. Lì incontra Francesco Lo Savio, il quale diventerà presto un punto di riferimento molto importante per lui. A tali frequentazioni è dovuto il minimalismo che lo porterà a realizzare una serie di opere monocromatiche, tra le quali Oggetto verde e Oggetto rosso del ‘60. Entrambe le opere si avvalgono di oggetti d’uso quotidiano – come, per esempio, pannelli di legno industriali o mollette-, per “togliere l’io dal quadro”, dando risalto, invece, all’oggettivazione. Pochi anni dopo, quelle stesse tavole di legno iniziano ad ospitare l’essenzialità dei segnali dalla cartellonistica stradale. Infatti, del ’62 è Uomo segnale, un’opera in cui la figura umana – per la precisione l’uomo stilizzato che attraversa le strisce pedonali – viene adottata in quanto segno riconoscibile a livello universale. Ed è sempre la figura umana la protagonista della serie dei Timbri (1963), questa volta però reiterata su carta mediante una matrice di gomma, accrescendo pertanto la standardizzazione ed il distacco da ogni forma di emozionalità.

Renato Mambor, Tappezzeria, 1970, acrilico su carta, 100 x 70 cm Courtesy Tornabuoni Arte

In mostra non potevano mancare sei opere appartenenti alla serie dei Ricalchi, presentati per la prima volta nel ‘65 nel corso della sua prima personale alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. Questa volta sono i rebus della settimana enigmistica a comparire sulla tela, allo scopo di comunicare un’azione. Se i segnali stradali sono elementi comprensibili a tutti, lo stesso vale per i rebus.

Alla fine degli anni Sessanta Mambor si trasferisce a vivere a Genova. Lì, nel ’67, alla Galleria La Bertesca, Germano Celant lo invita a partecipare alla storica collettiva Arte Povera – Im Spazio che sancirà la nascita dell’omonimo movimento artistico italiano. In questi anni l’artista si concentra su una serie di lavori chiamati Itinerari – esposti sia nella galleria genovese, sia alla Galleria dell’Ariete nel ’68 – costituiti da rulli per finte tappezzerie che si avvalgono ancora di una matrice. Successivamente, gli Itinerari assumeranno dimensioni ambientali, tra cui l’azione con Emilio Prini, a cui chiederà di passare il rullo sul suo corpo.

Renato Mambor, Gli osservatori (Maschera), 1983, tecnica mista su cartone, 71 x 101 cm Courtesy Tornabuoni Arte
Renato Mambor, Gli osservatori (Maschera), 1983, tecnica mista su cartone, 71 x 101 cm Courtesy Tornabuoni Arte

L’Archivio Mambor ha prestato per l’occasione anche il primo prototipo dell’Evidenziatore, messo a punto nel ’70 dal Maestro in collaborazione con l’architetto Paolo Scabello. Si tratta di un oggetto metallico che si apre, si chiude e si aggancia agli oggetti per prenderli in esame senza alterarli. Questo strumento verrà usato per eseguire molteplici rilevamenti della realtà che coinvolgeranno anche colleghi (come per esempio Alighiero Boetti e Gino De Dominicis), critici d’arte (come Achille Bonito Oliva e Gillo Dorfles), cantanti (come Franco Battiato) e la collettività in generale, bambini compresi. Pertanto, L’Evidenziatore rappresenta un’ulteriore testimonianza di quanto le relazioni fossero importanti per Mambor e la sua ricerca: «Inserisci il gesto dell’altro. Qualcosa cambierà».

Dalla metà degli anni Settanta, per oltre dieci anni, Mambor si dedicherà al teatro, formando una compagnia sperimentale: il Gruppo Trousse.

Renato Mambor, Uomo geografico/ fondo grigio, 2012, tecnica mista su tela, 100 x 120 cm Courtesy Tornabuoni Arte
Renato Mambor, Uomo geografico/ fondo grigio, 2012, tecnica mista su tela, 100 x 120 cm Courtesy Tornabuoni Arte

A partire dall’87 e fino al 2014, anno della sua scomparsa, Mambor riprende il pennello in mano accostandolo, però, alla scultura in quanto linguaggio artistico che gli consente di relazionarsi con lo spazio già ampiamente indagato in ambito teatrale. A questo periodo appartengono: Gli Osservatori (Maschera) del 1983; Osservatori bianchi del 1996; L’uomo geografico/fondo grigio del 2012; Le Coltivazioni Musicali del 2011. Come si potrà dedurre dai vari titoli, queste opere hanno per protagonista l’Osservatore, le cui caratteristiche sono spiegate ancora una volta dall’artista stesso: «Non mi interessa chi è la persona, l’osservatore non è un ritratto alla persona, ma mi interessa ciò che la persona fa: l’atto di osservare».

La retrospettiva si conclude (o si apre?) con una scultura di dimensioni museali, costituita da due sagome di uomini a grandezza naturale, poste davanti a dei rocchetti di fili colorati appesi a parete. L’opera si chiama per l’appunto Fili, è del 2012, e ritorna sul concetto di relazione come fil rouge di tutto il suo lavoro.

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