Alla Cardi Gallery di Milano è stata presentata, il 18 febbraio 2020, la personale di Shozo Shimamoto, in esposizione fino al 10 luglio. Una mostra di grande interesse, nata sotto i buoni auspici ma ben presto sospesa a causa della pandemia da coronavirus, come tante altre iniziative culturali messe in quarantena in questo periodo tormentato. In attesa di un’auspicabile riapertura, cerchiamo di dare un primo resoconto dell’evento, segnalando l’alta qualità dei lavori presentati e la poetica di questo grande Maestro giapponese.
Attraverso un importante corpus di opere, si mira a valorizzare la più tarda produzione dell’artista scomparso nel 2013, quella dell’ultimo decennio di lavoro che Rosanna Chiessi, dell’Archivio Pari&Dispari e fondatrice dell’Associazione Shozo Shimamoto – creata in Italia e in Giappone nel 2007, assieme al gallerista Giuseppe Morra di Napoli, città dove ora ha sede stabile l’associazione – ha saputo per diverso tempo supportare attraverso l’organizzazione di molte delle performance che hanno reso il maestro giapponese conosciuto in tutto il mondo.
Shimamoto è stato co-fondatore, con Jiro Yoshihara, del Gruppo Gutai, termine che in Giappone significa “concreto”. Attraverso la dimensione sofferta dei tempi e la forte frattura con la tradizione, l’arte cerca di mettere in mostra le qualità intime, una spiritualità latente che si incarna nella materia concreta e che si trasmuta in libertà ed energia insostanziale. Tutto ciò che era prima tradizione ora è materia fluida che inizia a rivivere. Il rapporto fra artista e materia appare completamente invertito: sono gli artisti a porsi al servizio dell’opera, anziché dominarla con la propria poetica.
La sua ricerca inizia nel 1954, guardando inizialmente a Jackson Pollock, alla tradizione occidentale e soprattutto alle Avanguardie europee, cercando di superarle sperimentando nuove soluzioni espressive. È interessante sottolineare il dibattito su chi sia stato il primo a fare i tagli, tra Lucio Fontana e Shimamoto. Una scoperta recente del curatore Alexandra Monroe conferma che Shimamoto aveva iniziato nel 1946 a effettuare i primi buchi, quindi tre anni prima di Fontana. Nel 1956, con Cannon Work, testimonia l’origine delle sue azioni di pittura all’interno della poetica Gutai: vengono sparati da un cannone, appositamente costruito dall’artista, i colori che si depositano sulla tela in modo casuale e provvisorio.
Nel 1957 Shimamoto firma ufficialmente il Manifesto per una messa al bando del pennello. È proprio in quest’anno che si avvia verso un’arte di azione, per divenire con la performance evento collettivo. Le azioni di Shimamoto, sono installazioni performative in cui con la partecipazione del fruitore si supera l’atto contemplativo per concretizzarsi in esperienza di dialogo.
Nell’ultimo periodo di lavoro, infatti, Shimamoto usa bottiglie e bicchieri per lanciare il colore sulla tela, ricercando il caso per annullare l’espressione artistica personale, come del resto fa anche il suo amico Yasuo Sumi, con un vibratore o un ombrellino, per spandere freneticamente il colore. L’idea di Shimamoto è ricondurre il colore alla dimensione di materia, alla fisicità di elemento cromatico non più percepito come veicolo della rappresentazione.
Questa particolare poetica caratterizza l’ultimo decennio della sua attività, fino alla morte, con le spettacolari azioni di bottle crash, lanciate a terra a volte da una posizione soprelevata e agganciato a una gru. Le tele che Shozo Shimamoto ottiene da queste performance, come per alcune opere presentate in questa mostra da Cardi Gallery, sono universi di energia cosmica. Tra il “mostrare e l’essere” Shimamoto sceglie “l’essere” e l’utilizzo del corpo come strumento relazionale, comunicativo e poetico, in una zona franca tra linguaggi diversi.
Scriveva: «Sono alla ricerca della verità», l’unica verità possibile dopo le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. E allora ecco che la sua ricerca sembra una sorta di percorso che, attraversando le bombe di colore lanciate dall’alto, possa portare alla pace e alla salvezza.
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