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Ritratti Africani. Seydou Keïta, Malick Sidibé, Samuel Fosso in mostra a Trieste
Mostre
di Emma Drocco
È la prima volta che in Italia viene presentata una selezione così ampia di opere dei tre fotografi, una grande opportunità per ampliare lo sguardo, confrontarsi con un contesto diverso da quello europeo e soprattutto con un modo diverso di concepire la fotografia. Uno sguardo, attraverso le immagini e in particolare tramite il genere del ritratto, che racconta di un continente alla ricerca della propria identità, documentando, sullo sfondo di una realtà culturale, politica ed economica, con caratteristiche lontane da quelle occidentali, le aspirazioni sociali dei soggetti fotografati nel periodo a cavallo della conquista dell’indipendenza, nel passaggio da ex-colonie a Paesi liberi.
Da cosa nasce l’idea che ha portato ad organizzare ‘Ritratti africani’, esponendo per la prima volta un’ampia selezione di opere di questi fotografi in Italia?
Il progetto mostra nasce da un invito che mi era stato rivolto dal Magazzino delle Idee di Trieste per curare una mostra di Malick Sidibé. A Sidibé ho proposto di aggregare altri due importanti fotografi: Seydou Keïta e Samuel Fosso. I tre artisti sono unanimemente considerati come i riferimenti più illustri della fotografia africana contemporanea, e le loro opere, rispetto ad altri autori africani, sono ormai presso diversi musei e collezioni, pubbliche e private. E, in un’ottica di reperimento opere, questo è un elemento importante considerando che stiamo parlando di fotografia africana degli anni cinquanta sino agli anni ottanta del secolo scorso, fatta eccezione per Fosso, quindi non semplice da recuperare.
Come sono state selezionate le 100 e oltre opere di questi tre fotografi?
Una dei punti di forza della mostra è proprio la selezione delle opere, avvenuta grazie alla generosità di collezionisti privati e collezioni pubbliche, in particolare la Contemporary African Art Collection (Collezione Pigozzi), che ha sede in Svizzera. Jean Pigozzi infatti è un grande collezionista d’arte africana contemporanea, non solo fotografia. Abbiamo così potuto operare una delle migliori selezioni possibili, proprio per il grande numero di opere che avevamo a disposizione di Keïta e Sidibé. Per quanto riguarda Fosso, invece, abbiamo lavorato direttamente con l’artista, tramite il suo agente Jean-Marc Patras, e in questo caso c’è stata la possibilità di fare una scelta orientata soprattutto sulle opere più vecchie, che a mio avviso sono più interessanti. Alla selezione ragionata delle opere si aggiunge l’eccezionalità di avere tutti e tre i fotografi insieme: prima di Trieste una simile mostra è stata proposta solo altre due volte, una su invito dei grandi magazzini di Parigi “Tati”, quasi trent’anni fa, e la seconda in una mostra organizzata in Svezia che poi si è spostata in Norvegia nei primi anni 2000. Da allora o prima di allora i tre autori sono sempre stati proposti insieme ad altri fotografi africani in mostre collettive.
Tre artisti scoperti in Occidente solo in anni recenti, cosa li rende così affascinanti?
Affascinanti non lo sono, la loro non è una fotografia che affascina come potrebbe esserlo la fotografia di moda o di altro genere, anche il paesaggio. Stiamo parlando fondamentalmente di ritratti, il ritratto è una caratteristica specifica della fotografia centrafricana, diversa dalla fotografia maghrebina e diversa dalla fotografia del Sudafrica, le tre grandi scuole della fotografia africana. La peculiarità di questa fotografia è proprio l’utilizzo del ritratto.
Una staffetta generazionale, così viene descritto il percorso in mostra. Come si articola?
Il percorso della mostra non è esattamente cronologico ma è diviso per autori. La mostra si apre con Keïta, poi Sidibé e infine Fosso. Per una questione di rispetto per i loro lavori e le loro ricerche, non aveva senso mischiare le opere o anche solo accostarle, perché gli anni non coincidono. Keïta lavora principalmente nel periodo in cui il Mali è ancora una colonia francese, Sidibé gli subentra in quanto la maggior parte della sua opera si sviluppa a cavallo della conquista dell’indipendenza negli anni sessanta del secolo scorso, e quindi registra questa onda di entusiasmo, freschezza e novità che travolge il Paese. Fosso nasce nel 1962 e dalla Nigeria si sposta nella Repubblica Centrafricana a causa della guerra civile, eredita in parte la pratica del ritratto che nel suo caso diventa autoritratto, passando da una posizione di osservatore ad una posizione di protagonista attraverso l’invenzione di un teatro dell’immaginario in cui lui recita una serie di ruoli e di cliché che si rifanno alla cultura occidentale. Infatti, nonostante l’indipendenza raggiunta da molti di questi Paesi, il modello culturale e sociale restava l’Europa, la Francia in particolare.
Perché un focus sul genere del ritratto?
Tutti i fotografi che hanno lavorato nel tratto geografico che va dal Senegal sino al Congo, percorrendo il Golfo di Guinea, hanno come caratteristica comune il ritratto. È un ritratto diverso da quello della scuola tedesca, non è registrazione o catalogazione di tipologie, in questo caso è uno spaccato sociale, l’unica testimonianza che il mondo occidentale ad oggi ha di quello che erano questi popoli non più di un centinaio di anni fa.
Nel catalogo il mio saggio introduce il ritratto in una prospettiva storica, partendo dai fotografi attivi già negli anni sessanta dell’Ottocento, grazie al quale si capisce come in realtà la ritrattistica sia sempre stata nella fotografia centrafricana un modo per arrivare progressivamente ad affermare una propria identità e un proprio ruolo sociale. Va considerato che tutti questi Paesi erano delle colonie, e attraverso la pratica del ritratto c’è un po’ la storia di questi popoli, di queste genti, nel riuscire ad arrivare non solo all’indipendenza ma soprattutto alla convinzione di avere una una propria identità, una propria cultura, tant’è che questo processo è stato riconosciuto da storici, antropologi, sociologi, come affermazione di una consapevole “africanità”.
Qual è lo spaccato storico dell’Africa che emerge dalla mostra?
Non possiamo parlare dell’intero continente africano ma di una sua parte. Soprattutto negli ultimi 20 anni ci sono state tante scuole e tante tendenze che si sono affermate in Africa. Sicuramente il ritratto è un tramite, un mezzo molto potente che la fotografia africana ha sempre utilizzato, un approccio che si rileva anche in altre zone. L’immagine che emerge da questa mostra è uno spaccato storico molto preciso, che ci racconta gli anni che vanno dal 1945/50 fino agli anni 80/90 con le fotografie di Keïta, Sidibé e infine Fosso, i 50 anni che sono a cavallo della conquista dell’indipendenza. Non è possibile a mio avviso fare una fotografia dell’Africa riconducendola solo a questi autori, bisogna ragionare a zone geografiche: la fotografia del nord Africa, in particolare il Maghreb guarda alla Francia come riferimento, quindi è più orientata verso il reportage, quella centrafricana è una fotografia che ha nel ritratto il suo modello di riferimento.C’è poi la parte che guarda al Medio Oriente come l’Egitto, la Somalia, l’Eritrea, in cui gli autori hanno un taglio più contemporaneo, utilizzano le immagini più che produrle.