Robert Morris è al Musée d’Art Moderne et Contemporain di Saint-Étienne con “The Perceiving Body”, fino al 1 novembre, con una singolare esposizione che assembla quattordici opere tra le più emblematiche del primo periodo del noto scultore statunitense.
Figura chiave nella storia dell’Arte Contemporanea, il MAMC + ha già organizzato nel 1974 una personale di Robert Morris (1931-2018), che da allora ha contribuito ad arricchire uno tra i più importanti fondi artistici d’Arte Minimalista e Postminimalista in Francia.
Introduce il percorso Untitled (1968-1969, alluminio, 150 x 428 x 420 cm), acquistata dal museo nel 1993, lo stesso anno Morris ricambia donando al MAMC + Sight Line (1974) in ricordo della prima personale francese. Ricordiamo che il Centre Pompidou di Parigi gli ha dedicato una memorabile retrospettiva nel 1995, di cui qui ritroviamo Wall Hanging (Feltro appeso al muro, 1969-1970). Coprodotta con il Mudam Luxembourg-Musée d’Art Moderne Grand-Duc Jean, la mostra è curata da Alexandre Quoi, capo del dipartimento scientifico del MAMC +, da Jeffrey Weiss e in stretta collaborazione con Morris stesso, poco prima della sua scomparsa.
Il percorso si disloca poi lungo sette spazi contigui che accolgono ciascuno un’unica installazione o un insieme di oggetti basati su principi simili, coprendo il periodo che va dai primi anni ’60 alla fine degli anni ’70. Si comincia con Untitled (3Ls) (1965/1970), composta da tre grandi sculture identiche a forma di L in compensato grigio, installate diversamente queste rimandano a posizioni quali lo stare in piedi, seduti o allungati. La mise en espace segue dunque il principio della ripetizione modulare di una singola forma e quello della sua permutazione. Il corpo umano non è esplicitamente rappresentato ma è implicito nell’opera, questa a sua volta definisce il percorso fisico dello spettatore. «Il corpo non è nello spazio, ma abita nello spazio», direbbe il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty (Phénoménologie de la perception, 1945). Dopo questa sala minimalista, dalle rigorose strutture geometriche e seriali, si passa a una scultura malleabile grazie all’impiego di materiali industriali come il feltro. Siamo qui nella Process Art, in cui l’artista sperimenta il peso naturale della materia per esperienze più sensoriali attraverso feltri industriali dello spessore di circa 2,5 cm, tra cui Untitled (Felt Piece) del 1974, parte della collezione MAMC+ di Saint-Étienne Métropole. Dopo essere stato tagliato e appeso al muro, è il feltro stesso a determinare la sua forma, lasciando il pubblico libero di decodificare l’opera. Morris inizia a utilizzare il feltro nel 1967, mentre l’anno seguente scrive Anti-Form – titolo di un articolo pubblicato su Artforum – in cui teorizza l’Arte Processuale dichiarando, fra l’altro, di affidare il tocco finale alla materia ovvero il making by itself.
Il percorso continua con la serie Large-form objects, che nella diversità dei materiali utilizzati, che vanno dal compensato, alla fibra di vetro, alla rete d’acciaio o al legno, propone creazioni che diffondono, riflettono o assorbono la luce, dimostrando una buona conoscenza tecnica dei materiali dovuti probabilmente ai suoi studi di ingegneria e belle arti.
Lo specchio, elemento ricorrente in Morris, è nei quattro cubi di Untitled (Mirrored Cubes), 1965/1971, e nel film Mirror (1969, 16 mm bianco e nero, 8′), una vera e propria chicca di cinema sperimentale. L’artista esplora lo spazio ingannevole e mutevole della realtà attraverso l’uso di uno specchio, che tenuto fra le mani, riflette integralmente l’ambiente nevoso circostante. In seguito, muovendosi a ritroso rispetto alla cinepresa, Morris viene inglobato nella natura, svanendo in essa. Segue Untitled (Scatter Piece), 1968–1969/2009, che vede un’esplosione di materiali d’atelier sparsi in uno spazio vuoto, mentre la mostra termina con Untitled (Portland Mirrors) del 1977, che vede quattro grandi specchi occupare ognuno una parete di una sala rettangolare, e quattro travi di legno posate a terra in diagonale che rimandano alle linee prospettiche. Questa installazione, presentata alla Biennale di Lione del 2006, permette allo spettatore di interagire con l’opera in un gioco tra realtà e una falsa trascrizione di questa. La curatela di estrema chiarezza e semplicità lascia libero corso alla fantasia, mentre l’evento ci offre una ricostruzione storica dei rapporti intercorsi tra l’artista statunitense e la Francia, ossia quando la creazione artistica si avvale del supporto di istituzioni museali pubbliche di rilievo.
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