Quello in cui ci ospita Sabina Mirri, nella galleria di Alessandra Bonomo, per le sue ultime creazioni Gonna be a cult character, è uno spazio accogliente e intimo, privilegiato, non una “mostra”. Guardiamo infatti, niente di meno che dal punto di vista – leggermente rialzato – dello studiolo di San Girolamo di Antonello da Messina – sublime fish-eye rinascimentale che troneggia al centro della stanza – riproposto in forma reale, quasi a grandezza naturale e abitabile, di cui, dopo essersene invaghita, Sabina Mirri si è appropriata nel 2014, sino a tradurlo in un oggetto funzionale; ne ha fatto non solo lo scrittoio privato dove trascrivere i propri pensieri, ma il luogo fisico dove intraprendere letture e meditazioni, dove raccogliere cimeli di amici e di vita personale, da cui, come da un osservatorio dalle molte prospettive, poter rivolgere da un arco di mezzo millennio, lo sguardo su una storia a 360 gradi e su quel vissuto, che di tanta storia si è nutrito, spaziandovi.
Lo sguardo cade dall’alto verso il basso e si concentra ogni volta sulle porzioni di una stanza dove risalta un pavimento, fatto di larghe assi di legno – un po’ come negli Interni ferraresi di de Chirico o nella calda intimità della Camera di Vincent ad Arles di Van Gogh – oltre agli strumenti per la pulizia, appoggiati al muro con le loro lunghe ombre, – come la scopa, o lo straccio per lavare, che si affrettano a spazzar via le tracce di tutto ciò che è appena stato creato alle pareti – compaiono spesso, anche una lampada e persino le punte dei piedi di chi, indisturbato, ha lavorato nell’ambiente.
Siamo, inequivocabilmente, dentro lo studio dell’artista, proprio dove il suo occhio cade regolarmente, nel contesto abituale, fatto di oggetti comuni e quotidiani. Invece le opere che sono state create nello studio, restano fuori campo. Al loro posto, in un ambiente più neutro, fatta esclusione per i riferimenti alle letture praticate e ai propri loisirs – dalle bottiglie di Gin Monkey 47 ai rotoli multicolori di scotch da lavoro, alle pile di libri e cataloghi degli autori preferiti – appare la figura di cui è scritto: “Destinato a diventare un personaggio di culto” – una grande lepre androgina dalla pelle rosea e levigata come quella di un bambino, oppure in pantaloni e bretelle, ma con i tacchi a spillo. Invece di correre e di stare all’erta come di norma, la lepre se la gode beffarda, fumando il sigaro e dandosi bel tempo, sdraiata sulla classica dormeuse, destinata alle grandi bellezze della storia, da Paolina Borghese, in modalità di Venere vincitrice, a Madame Récamier. Tutto ciò che doveva accadere, è già accaduto, non c’è da aver fretta. Noi tutti siamo spettatori privilegiati di fatti già avvenuti, di vite già vissute con cui ci poniamo in contatto scrutando ed entrando in empatia, come fa Sabina nei piccoli disegni a matita o a pastello, che racchiudono luoghi sparsi per il mondo – dalla camera di Nietzsche a Sils Maria, a Le Cabanon di Le Corbusier, alla vasca da bagno di Hitler dove Lee Miller s’immerse per farsi fotografare – basta prendersi il tempo per frugare in tutta la ricchezza che ci si offre, per girovagare, interpretare o sognare, non c’è che l’imbarazzo della scelta, tutto è a portata di mano.
All’emblema d’insuperabile amore per lo studio dei sacri testi rappresentato da San Girolamo e dal suo studiolo, si contrappone dunque, questa lepre impertinente, refrattaria a qualsiasi rigore culturale alto, lei così propensa alle più estrose dinamiche della natura e alla sua imprevedibilità da rappresentarne l’irresistibile eros primigenio, pur calzando le alate scarpe mercuriali che la rappresentano, un po’ ovunque, qui nei disegni. Una sfida impari tra l’istinto di vita, il cui destino è nella sopravvivenza, capace come la lepre di salti acrobatici e la passione per il rigore, l’esattezza e la perfezione, necessari alla sapienza filosofica, ma anche alla bellezza.
L’arte è il frutto di questi paradossi, sempre pronta a rimettere in discussione ogni sapere e conoscenza acquisita, per non perdere quell’urgenza che la mantiene in vita, lontana da qualsiasi accademismo e piatta ripetizione. D’altra parte la lampada-casco nell’intenzione dell’artista evoca la forma della cupola di San Pietro – vicina ai luoghi della sua infanzia romana – sprigionando come un’aura luminosa intorno alla testa e alle lunghe orecchie della lepre. Un modo di galvanizzare i suoi impulsi anche con le grandi imprese del passato?
La tecnica dei sette grandi collage che avvolgono la stanza, straordinariamente aderente alla precarietà di un presente ritagliato nell’attimo del suo divenire, per la sua fragilità è, qui, il salto acrobatico – una maestria in cui nulla può essere dato per scontato – dove disegno, pastelli a tempera, sovrapposizioni in trasparenza, talora lavorate al dritto e al rovescio, sono parte dell’effetto di smagliante freschezza e fragranza dell’insieme.        La carta di riso trasparente è stata montata in loco sui pannelli di legno, dove resta appena appoggiata e come soffiata, con qualche truciolo di collage che pende fuori e sventola all’aria. Tutto vive in un presente magicamente immerso nella stessa atmosfera di colore e di luce che si espande diafano nella stanza attraverso le nostre pupille, ma è sempre pittura ricca di molteplici velature.
Sul retro, i piccoli disegni a matita e a pastello si stagliano, come finestrelle aperte nella profondità delle prospettive, indicate dallo studiolo-osservatorio, verso il nostro passato prossimo, dove appena trascorse sono le figure di Gino De Dominicis o di Alighiero Boetti cui si fa riferimento, e dove aleggia ancora, anche la presenza dei capofila del secolo scorso che in un grande disegno di libri accatastati formano La colonna portante; da Marcel Duchamp a Francis Bacon, da Picasso a De Kooning, da Hans Bellmer a Jacques Le Goff, da Beuys a Lee Miller e così via.
Gli scomparti dello studiolo accolgono invece, appoggiati con noncuranza in primo piano dal basso in alto, tre preziosi quadretti di Sandro Chia, in modo da configurare una sorta di still life o di “natura silente” – e non “morta”, come l’avrebbe definita de Chirico – in omaggio all’amico di un tempo, fra quelli che sono ancora tra noi.
Ogni volta che si lascia un vuoto nella grande tela della storia, si perde il contatto con un destino che evolve dentro le forme create e la cultura di un paese, facendo spazio
a fenomeni improvvisati e sterili, destinati alla macchina di un mercato che uniforma il gusto al facile glamour o luxury delle vetrine commerciali. Un modo di togliere fertilità alle radici e ai semi che vivono sotto terra e che costituiscono l’humus della parlata colta, quella che sarebbe necessario trasmettere ai più.
Le mostre di Fosco Valentini e di Sabina Mirri da Alessandra Bonomo, hanno avuto dunque proprio questo merito: restituire visibilitĂ a una generazione che non era affatto inoperosa, ma piuttosto, operante silenziosamente, sotto traccia.
Giovanna dalla Chiesa
Dal 18 febbraio
Sabina Mirri, Gonna be a cult character | Galleria Alessandra Bonomo
Via del GesĂą 62, Roma
Info: www.bonomogallery.com
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