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Salvatore Emblema, artista della sensazione: la mostra diffusa a Napoli
Mostre
Salvatore Emblema lo avevo scoperto così, vagando a caso per le sale del Museo di Capodimonte. Non lo conoscevo, confesso, sapevo solo che, promosso a suo tempo, nientedimeno, da Giulio Carlo Argan (1909-1992), era stato poi pressoché dimenticato. Eppure Salvatore Emblema (1929-2009) aveva portato con successo nel mondo la sua arte, che aveva trovato posto al Metropolitan Museum di New York, alla Biennale di Venezia, agli Uffizi di Firenze e al Palazzo Reale di Napoli, senza contare che le sue opere, quando, da giovane, le aveva esposte al “Lingotto” di Torino, erano state acquistate in blocco, tutte quante insieme, da Gianni Agnelli.
Di recente, mi hanno parlato di lui alcuni amici, ora affermati storici dell’arte e artisti, Domenico Natale e Raffaele Boemio, un tempo suoi giovani allievi, frequentatori della sua casa e delle sue riunioni conviviali, e me ne hanno raccontato la cordiale accoglienza, mentre il Maestro insegnava loro i segreti – «Non tutti, però» – della sua arte. Attira ancora visitatori la sua casa–studio, ora Museo Emblema, in quel di Terzigno, il suo paese natale, alle falde del Vesuvio, famoso per il vino rosso Lacrima Cristi e i dolcissimi Pomodorini del Piennolo. Forse possiamo dire che, appunto, queste esperienze agricole hanno suggerito a Salvatore Emblema lo studio della natura e delle sue apparenze, che è sempre rimasto nella sua arte. Le sue prime opere sono dei collage di foglie secche, da cui la ricerca dei vari colori naturali delle foglie, che poi si accompagnerà allo studio delle sabbie, delle ceneri vesuviane e del pietrisco della sua campagna, che, al fine di potere avere dei colori naturali, osserva e sceglie per trovare l’espressione più propria al proprio intimo discorso artistico.
Questa sua esperienza si intreccia con quella di viaggi in giro per l’Europa e di un suo soggiorno negli States, dove si interessa, a volte ispirandosene, a Jackson Pollock, uno degli inventori del dripping, una sorta di “pittura automatica”, e, soprattutto, a Mark Rothko, che, con l’accoppiamento particolare dei colori, tendeva a far partecipe lo spettatore dell’invenzione lirica dell’opera. Ora il direttore Sylvain Bellenger, stimando per buona la sua arte, le dà ampio spazio nel Museo e nel Real Bosco di Capodimonte, ospitandone le opere con una mostra visitabile fino al 3 marzo 2023, curata dallo stesso Bellenger, con il supporto scientifico del Museo Emblema e la collaborazione degli Amici di Capodimonte.
Si può dire che Salvatore Emblema tende a esprimersi soprattutto con il colore, che vorrebbe libero da qualsiasi supporto materiale. Cosicché spesso cerca di smaterializzare la tela di iuta, sulla quale dipinge, usando una sorta di “detessitura”, cioè eliminandone alcuni fili. In questo senso, la ricerca più avanzata di Emblema consiste nel sovrapporre, in verticale, l’una sull’altra, due tele “detessute” di uguale misura, formando, tra queste, un’intercapedine, uno spazio vuoto, ricco del movimento di un leggero colore.
La mostra delle opere di Emblema a Capodimonte, dunque, è fuori dai soliti clichés museali e, piena di sorprese, è stata concepita come una esposizione diffusa: alcune opere sono nelle sale del Museo, altre nel Real Bosco, altre nel cellaio, un edificio antico, del tempo dei Borbone, dove si conservavano al fresco le derrate alimentari. Tra tante opere, rimane impresso nella mente un quadro con il dipinto di una sorta di corto bastone orizzontale che, insieme a un altro di diverso colore, gira, all’apparenza, come un grill, creando un magico spazio. Convincente, all’aperto, l’installazione di una sorta di siepe che è come un velo attraverso il quale il colore naturale di un pezzo di natura appare diverso.
Ma non è possibile, per me, restituire in parole le impressioni visive suscitate dall’arte nuova e antica di Salvatore Emblema. Che, di recente, va oltre i confini della città: partendo da Capodimonte giunge nell’aeroporto di Capodichino. Considerandone i nomi, si comprende che l’uno e l’altro luogo sono parte di uno stesso complesso collinare, che da Capodimonte, più elevato, a Capodichino si spiana, per consentire agli aerei di volare più su e di atterrare dall’alto.
Per un accordo, siglato il 23 dicembre 2022, tra il direttore di Capodimonte Sylvain Bellenger e Roberto Barbieri, ad della Gesac – Servizi Aeroportuali di Capodichino, almeno per un anno, un luogo chiamato Art Gate, nell’area partenze dell’aeroporto napoletano, sarà dedicato all’esposizione di opere che pubblicizzino l’arte di Capodimonte. Si inizia proprio con un mostra di dipinti di Emblema chiamata “La materia del Cielo”. Si tratta di alcuna pitture realizzate verso la metà degli anni Sessanta, che rendono, attraverso il colore, la leggerezza della materia. Ma nelle opere rimane il senso della stabilità, per le forme classiche che Emblema ha dato loro, quadrati e ovali, e che in due quadri, viene ribadito dall’uso di quattro elementi pittorici decorativi (il quattro è il simbolo numerico della terra e della stabilità).
Volare, sì, aprire all’arte nuove strade, ma stando sempre con i piedi per terra, secondo la saggezza tradizionale contadina. Di norma, un aeroporto viene considerato di semplice passaggio, un “Non Luogo”. Ma l’aeroporto di Capodichino sembra amorevolmente caratterizzato come parte di Napoli. Non ne mancano gli elementi: una enorme gigantografia del golfo, delle vedute della città, degli ovali trasparenti attraverso i quali si guarda verso le piste di atterraggio e un largo spazio di cielo con le sue nuvole sempre in movimento. Inoltre, delle frasi stampate guidano il passeggero verso la mostra di Emblema, tra queste ce ne è una che domanda: «Di cosa è fatto il Cielo? Pare di nulla eppure l’azzurro ti sostiene le nuvole». Mentre un buon aroma di caffè napoletano si diffonde dal bar.
Sarà un caso ma, anche stavolta, una nuova iniziativa è partita da Napoli e subito è stata ripetuta da altri. Così, in un altro aeroporto, quello Internazionale di Fiumicino, è stato inserito lo scheletro di un’enorme balena di plastica, di 12 metri circa, realizzata dall’artista Marcantonio, che, con la sua enormità senz’altro fa colpo, ma non riesce a caratterizzare il luogo e non è una vista piacevole.