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SALVIFICA. Il Sassoferrato e Nicola Samorì, tra rito e ferita
Mostre
La settantunesima edizione della Rassegna Internazionale d’Arte | Premio G. B. Salvi si è aperta lo scorso 28 ottobre con la mostra “SALVIFICA. Il Sassoferrato e Nicola Samorì, tra rito e ferita”, a cura di Federica Facchini e Massimo Pulini.
Punto di riferimento, non solo regionale, nella ricerca artistica contemporanea, la Rassegna Internazionale d’Arte | Premio G. B. Salvi, dedicata al più illustre cittadino sentinate, il pittore Giovanni Battista Salvi, è la più longeva, in ambito artistico e in territorio italiano, dopo la Biennale di Venezia e il Premio Michetti di Francavilla al Mare.
Storia e memoria sono, in termini curatoriali, due concetti chiave nell’approccio a “SALVIFICA. Il Sassoferrato e Nicola Samorì, tra rito e ferita”. Istintivamente distinti, ma spesso facilmente vicini nel linguaggio comune, in ambito artistico che cosa ci rivelano? Che cosa sono storia e memoria? Perché la storia ha una dimensione pubblica, e la memoria è una questione intima. Porle congiuntamente al centro di una rassegna non sottende una disciplina bensì quell’attitudine che, come singoli, abbiamo di portare dentro esperienze del passato. Una sorta di processo continuo, potremmo dire, che si traduce in mostra come un dialogo inedito e folgorante, rivelatore di un’affinità particolare. Come il Sassoferrato così Samorì, entrambi sono quasi ‘ossessionati’ dalla ri-scrittura di temi e modelli, che si traduce in una rielaborazione continua e vorticosa delle immagini frutto di un’elaborazione continua, di uno scavo quasi archeologico, nei meandri della pittura.
Il ruolo e le scelte del Sassoferrato sempre si distinsero per un’ostinata ricerca pittorica orientata al recupero di valori rinascimentali, ponendosi in direzione contraria rispetto alle tendenze del XVII secolo. Le dieci opere inedite presentate tracciano un coerente racconto della sua attività artistica, dalla formazione classicista alla sperimentazione della ripetizione, pratica che non intaccò il suo talento esecutivo. L’originale innesto tra la storia dell’arte passata e il tempo presente è elemento distintivo del lavoro di Nicola Samorì, abile nell’identificarsi e vivere con la figura che sceglie per dialogare, facendola sua in maniera scientifica.
Innegabile la maestria, di entrambi, nella capacità di circuitare tempo e memoria visiva, non possiamo prescindere però da come la reiterazione di una immagine devozionale, sacra, pia, corrisponda per il Sassoferrato a un mantra spirituale e per Samorì a un’occasione per mostrare la lenta e progressiva consunzione della materia, dell’immagine e dell’identità.
“Das Unheimlich”, scriveva, e forse direbbe, Freud. «Tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto e che invece è affiorato», penserebbe Shelling. È il nascosto, dunque, che in un qualche modo attraverso le opere, ritorna ad affiorare e genera un sentimento perturbante. Magistrale, in questo senso, è la pratica di Samorì di sconfinare dalla pittura alla scultura e viceversa, mostrandoci come dentro la voragine, dentro al buio, dentro al buco, ci sia possibilità di riscatto e di rinascita.
Come possa il mistero della vita essere svelato lo si scopre opera dopo opera. Di Sassoferrato un “Amorino con chitarra” e “Tre putti e un tritone”, redazioni inedite e autografe dell’”Addolorata”, dell’”Annunziata” e del “Salvator Mundi”, varianti mai pubblicate della famosa “Madonna col Bambino dormiente” e la “Madonna col Bambino e san Giovannino”, sono nel percorso espositivo poste a fianco delle intense interpretazioni di Nicola Samorì. Come “Lucia”, offesa nello sguardo, mostra i segni evidenti del suo martirio stimolando uno sguardo interiore sul trauma e su cosa abbia portato a quel dramma. O “Artaud”, arcuato, sofferente, emaciato, che si sfalda sotto i colpi di un disagio fisico e psicologico, sempre più frequente e manifesto nella società contemporanea. E, ancora, in “Madonna del sasso” la forma classica si sfalda, perde l’antica levigatezza per farsi scabrosa, bubbonica.
Queste opere tacendo parlano, osservando si raccontano. Non guardando, ascoltano. L’iconografia è affrontata, gli stereotipi annientati. Perché il nuovo reale di Samorì ci suggerisce come anche dove non c’è bellezza, forse, ci può essere amore e dolcezza… “Das Unheimlich”.