È un mondo femminile, intimo, quello di Maria Adele Del Vecchio, artista casertana (1976) in mostra alla Galleria Tiziana Di Caro. “Sentinella, a che punto è la notte?” È il titolo della terza personale dell’artista, ma anche dell’opera a neon dal gusto concettuale che connette, illuminando di blu la prima sala della galleria in pieno centro storico, a Piazzetta Nilo.
L’artista gioca sulle possibili interpretazioni che questa frase ha avuto nel tempo, partendo dall’archè del suo battesimo: le pagine della Bibbia attribuite al profeta Isaia. «Succede così che questa domanda biblica ha il valore, a mio avviso, di garantirsi la sopravvivenza, di confermare l’esistenza dei cicli naturali, affermando la vastità fertile della notte, amica delle stelle», Maria Adele Del Vecchio.
La protagonista simbolica è la notte, vissuta come una veste da indossare, in solitaria. Il tempo sembra essersi fermato, avvolto da una fioca luce che ne esalta la percezione. L’ambientazione è quella di una casa, con i suoi ricordi, certe volte persino dimenticati. Oggetti raccolti ed esposti come trofei, non più in vendita, che albergano scomparti di uno spazio condiviso.
La Del Vecchio separa questa condivisione, portando ogni pezzo alla visione singola, come un racconto che ha bisogno di procedere per passi. La dimensione personale del progetto, essendo oggetti appartenuti alla madre scomparsa dell’artista, trasmette un sentimento familiare che non lascia indifferenti, perché tocca una sfera vicina a tutti. L’idea di prendersi cura dello spazio in cui si vive, comune nella figura femminile, diventa una forma di riconoscimento, di angolo sicuro da tramandare e preservare come un segreto che va raccolto nel tempo. Il decoro, espressione di bellezza, assume dei toni di tenerezza, che vanno oltre l’aspetto estetico. Nonostante la semplicità, gli oggetti scelti sembrano delle vere sentinelle che si prendono beffe dell’osservatore, perché non può toccarle con mano, non può svelarne la storia, ma ha una visione vincolata dalla loro riproduzione fotografica.
L’artista conduce in questo modo un gioco che inizia con la domanda /indovinello. In realtà nella sua retoricità, sigla un patto di fiducia eccezionale e perciò precaria, tentando un approccio intimo, quasi scenografico. Ogni inquadratura mette in scena attimi, minuti, giorni di vita di un estraneo che potrebbe ricordarci qualcuno. Un linguaggio che invita e riflette sulla figura femminile, ad indagare in quel delirante richiamo dell’inutile, che magicamente rassicura e conforta. Lo specchio con dentro un frammento di paesaggio (collage) suggerisce proprio quel tepore di ciclico passaggio, che riunisce in sé l’energia primordiale che si genera in quella parte acquea del mondo.
È forse in quel tramonto che riappare l’identità, quella dell’artista, in una scultura autoritratto in cera, simile ad una candela destinata ad esaurirsi. Una metafora sulla caducità della vita, rappresentazione di sé, ma in fase dormiente, in attesa di riaffiorare, come si vede dalla morbidezza con cui la materia poggia sul supporto. Lo stoppino è un invito e una provocazione allo stesso tempo, pratica condivisa anche da altri artisti, il cui intento è quello di coinvolgere chi la guarda non tanto nella realizzazione dell’opera, quanto piuttosto nell’infondere quel senso di incertezza che da sempre affligge l’umano, sulla precarietà della propria esistenza.
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