Bojan Sarcevic - Vieille Lâcheté - installation view - courtesy l'artista e Pinksummer - photo Alice Moschin
Occhi che scrutano, ti puntano. E, a loro modo, raccontano che bisognerebbe avere, almeno una volta nella vita, lo stesso rapporto con l’oggettualità in cui siamo immersi dimostrato da Bojan Sarcevic (Belgrado, 1974), alla sua sesta personale da Pinksummer.
Vieille Lacheté è un progetto nuovo di zecca, appositamente ragionato per la galleria genovese da Sarcevic. Artista che ha dell’istrionico nel suo puntare a un linguaggio oggettuale al di sopra di ogni possibile mistificazione concettuale. Qui nello specifico con delle giacche, sulle quali ha inferto tagli che concretizzano un rapporto tra la pelle animale e gli elementi incoerenti (sintetici come le imbottiture, naturali come i fili di cotone), con cui l’uomo contemporaneo ha piegato la stessa pelle al proprio uso e consumo.
Sarcevic anima, riflette, concettualizza. E tutto questo lo fa auto-dichiarandosi. Palesandosi nel concreto di chi sceglie, mette mano; lascia tracce nei fili pendenti e nei tagli grezzi, che raccontano il suo approccio decisamente artigianale – quasi vernacolare – alla pratica artistica. È come se Sarcevic intendesse calare tutto il progetto dall’olimpo (dell’arte contemporanea), per fargli toccare la stessa terra che calpesta chiunque entri a farsi un giro da Pinksummer. Come se una corretta ricerca in campo visuale imponesse di vivere la nostra stessa realtà, non un surrogato creato ad arte.
Vieille Lacheté è puro realismo declinato alla Sarcevic. È un realismo che anima – o, più correttamente, “ri-anima” – la pelle di giacche; su cui l’artista ha applicato occhi in vetro da tassidermista, ché con quelli in plastica acquistati in rete – scopriamo parlando con Antonella Berruti di Pinksummer – l’effetto finale non sarebbe stato equiparabile. E notate, non stiamo parlando di un vezzo d’artista, ma di un punto fondamentale: paradossalmente, è verosimile che l’intero progetto sarebbe rimasto al palo. Paradossalmente.
Sì, perché in fondo l’arte tutta – anche la più posata di questo mondo – è incline ai paradossi, alle disfunzionalità. Ai ribaltoni per cui, se lo scopo della tassidermia è bloccare il tempo, quello di Sarcevic è muovere, è far tornare a scorrere quel tempo. È portare a nuova vita. Non nel senso ecologicamente attuale del “riciclo” (creativo o meno che sia), ma in quello oggettivo di far rivivere la pelle in quanto organo vivo. Un organo da cui possono nascere creature di cui l’artista ha studiato ogni posa, con sguardi variabili tra il minaccioso, l’assertivo, l’interrogativo.
Una specie di comunità, un gruppo coeso in cui tuttavia non manca il dissidente di lusso: la giacca color panna, coi suoi tratti complessi pura espressione di un cubismo ritrovato.
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