Colori freddi e incendiari, stridenti e cupi, visioni inquietanti, finanche spaventose: così Alessandro Fogo rivisita la complessità del mondo e dell’uomo e intesse intesse una serie di domande sul senso della rappresentazione, sull’idea di pittura e sulla sua necessità senza prescindere, anzi da lì muovendo, dall’imperituro rapporto tra arte e mito.
L’occasione di Mythos, la mostra personale a cura di Paola Ballesi e aperta nel piano nobile dei Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi di Macerata fino al prossimo 3 marzo 2024, è il conferimento ad Alessandro Fogo del Premio Pannaggi/Nuova Generazione 2023 – sostenuto e sponsorizzato da Simoncelli Group, da sempre attento sostenitore del connubio tra arte e mondo produttivo nelle Marche – da parte dell’Associazione Amici di Palazzo Buonaccorsi e del Comune di Macerata, Macerata Musei, Macerata Culture insieme a Regione Marche e Fondazione Carima. «La sua pittura inscena suggestive narrazioni imbastite con elementi spiazzanti e motivi di ambiguità̀ avviluppati in colate di colori intensi, talvolta stridenti e cupi, che, come pesanti quinte, aprono scenari allestiti con sottile e audace regia per rappresentare il sogno a occhi aperti della vita», ha motivato la commissione composta da Paola Ballessi, l’Assessore alla Cultura Katiuscia Cassetta, Nikla Cingolani, Loretta Fabrizi, Paolo Gobbi, Mauro Mazziero, Marina Mentoni, Giuliana Pascucci e Massimo Vitangeli.
Convivendo, il linguaggio della pittura e l’attualità stringente diventano nello studio e nell’atto creativo di Fogo strumenti per riportare alla luce l’antico rapporto tra arte e mito beninteso, quest’ultimo, in termini di grandi narrazioni – non codificate – che l’umanità mette in gioco per dare senso alla vita che scorre. «La narrazione – racconta Fogo stesso in un dialogo con Davide Ferri che arricchisce il catalogo che accompagna la mostra – risulta inevitabilmente dalla composizione. Come ti accennavo il mio interesse è per il possibile campo semantico dei soggetti, che è sempre multidirezionale e instabile. E mi interessa la possibilità di una narrazione non per esaurirla, ma come ipotesi e/o per innestare un cortocircuito».
Nelle tele esposte Alessandro Fogo, dunque, esaspera la tradizione iconografica e formale facendo apparire l’elemento mitico in una figurazione dagli esiti inaspettati, come accade, per esempio, nell’opera che apre il percorso espositivo dove un profondo blu sembra disegnare quinte teatrali che si aprono sull’uovo, simbolo della sacralità (In principio fu la cicogna che perì nel calore degli altri celesti nel tentativo di portare il piccolo Dio nell’Altissimo) o nella vittoria della Satiressa su Tritone in Tritone e Satinessa. Così facendo accenna e non esaurisce, lasciando aperta la possibilità di significati diversi e di sempre qualcosa di nuovo. La curatrice, Paola Ballesi, nel testo a corredo di Mythos, riconduce quest’attitudine alla fantasmagoria dello spirito che Ernst Cassirer aveva evidenziato – scavando nel fondo a fondo alle origini della conoscenza – come «necessità inerente al linguaggio nella varietà delle sue molteplici forme proprie del legein, l’arte di collegare, unire e significare che precede ogni predicazione».
Serprenti, maschere, maschere egizie: sono le forme simboliche – di cui parla la curatrice e a cui Cassirer ha ascritto ogni ideale attività spirituale datrice di forma e di significato – a dare corpo e anima al percorso di Mythos, non in quanto imitazioni della realtà bensì come organi di essa, per mezzo dei quali Fogo afferra il reale e lo configura, rendendolo visibile. E così riaffiora, dolce e sorprendete, il ricordo di Calvino, che del mito disse «è un testo che non ha mai finito di dire quello che ha da dire», affidando a noi il compito di reinterpretarlo aggiungendo alle meravigliose voci del passato un tocco di presente.
Dentro la dimensione di uno spazio e di un tempo ignoti, Alessandro Fogo ci porta a esperire la potenza del mito per fare esperienza di ciò che accade e ci accade. Ed è così, con questo dono, che auguriamo oggi un Buon Natale ricordandoci – come ha ricordato Paola Ballesi in principio di testo, citando Edgar Allan Poe – che «coloro che sognano ad occhi aperti sanno molte cose che sfuggono a quelli che sognano soltanto di notte».
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