In bilico tra ciò che è stato e ciò che sarà, tra memoria e promessa, Sophie Ko si rivolge ai vinti, scalpellando nel muro del Padiglione del Tè, e poi dorando – come i romani erano soliti fare per rendere tributi d’onore – il verso finale della poesia Il Cigno di Charles Baudelaire: «ai vinti! … e ad altri, ad altri ancora!».
La quindicesima edizione di Contemporary Locus, a cura di Paola Tognon, apre e abita il Giardino Caprotti, l’enclave verde meno conosciuta nell’area più densamente abitata del cuore di Bergamo. Ci si arriva attraversando la corte affrescata da Signorini nell’800 (con chiaro riferimento neo-rinascimentale e inserti di modernità) nel palazzo che fu della Famiglia Caprotti, acquirenti originari di un pezzo di terreno, messo al catasto dal 1400, trasformato nel tempo in un giardino romantico.
Questo giardino, sotto tutela del Comune di Bergamo dal 1970, conserva il suo disegno romantico originale: immenso e selvaggio, apparentemente naturale in tutta la sua artificialità, e arricchito di piante esotiche che rispondono a un’ormai nota declinazione di colonialismo che si applica anche alla botanica. Qui, fino al 5 novembre, ogni sabato e domenica, sarà possibile vedere la mostra e prendere parte a un ricco programma di azioni, performance, concerti, spettacoli, letture e talk, tra cui un progetto sperimentale dedicato all’inclusione sulle esperienze di Al.Di.Qua. Artists – Alternative Disability Quality Artists).
L’invito a Sophie Ko, che trasforma questo luogo in uno spazio di sperimentazione artistica e in una piattaforma partecipativa intergenerazionale, ha costituito una scommessa – vinta – da un punto di vista della tecnica. Nel corso della sua residenza, Ko ha infatti potuto spingere la propria ricerca oltre la dimensione pittorica (lavora da sempre con la cenere di libri di storia dell’arte o con il pigmento puro a strati) verso quella tridimensionale e installativa che pone memoria, tempo e immaginazione in stretta connessione con l’attualità.
«Come un bambino che pianta una foglia su una corteccia, in queste barche l’arte torna alla propria dimensione originaria di gioco, di attività spirituale in grado di dare forma alla materia. Proprio fin da bambini sentiamo la barca come il simbolo di un viaggio verso luoghi ignoti, ma che vorremmo conoscere, come via di emancipazione da ciò che ci costringe. È in atto una lotta tra questi vecchi mobili e le barche: i mobili sembrano voler ridurre le barche a suppellettili, d’altra parte anche una semplice barca fatta per gioco irradia una forza che alimenta l’immaginazione di luoghi sconosciuti, di una nuova vita, quella nuova esistenza redenta che sognano i marinai dimenticati in un’isola, i prigionieri, i vinti e tutte le altre figure dimenticate evocate nei versi de Il cigno di Baudelaire».
Il percorso espositivo inizia, in passeggio e in compagnia di un cigno, nel laghetto del parco, al centro del quale Sophie Ko ha scelto di esporre sopra il livello dell’acqua la prima di una serie di dieci sculture, intitolate – ognuna – Una Barca. Fondendo in bronzo una foglia e un pezzo di corteccia, ogni volta sempre diversi, Ko ha portato a Bergamo il tema del viaggio, imprescindibilmente legato al concetto di tempo. Sono barche in procinto di partire o di approdare in acque e terre sconosciute?
Raggiugniamo il Padiglione del Tè, piccolo edificio in stile neorinascimentale oggi in dismissione di senso, di storia e di funzione, attraversando una grotta, mimeticamente coperta in alcuni punti dall’artista con oro zecchino in foglia – lo stesso che usa per la balconata esterna del Padiglione – che alimenta momenti di respiro e di spiritualità. Ancora prima di entrare, le vetrate dell’edificio lasciano intravedere l’installazione all’interno, dove Sophie Ko ha preferito mantenere tutto come era: i mobili, le pareti e il soffitto. Un articolato sistema di fili sospesi, a cui sono appesi dei carboni, crea un gioco labirintico che stimola la curiosità e il movimento dell’umano.
Ai Vinti, così si intitola l’installazione dentro al Padiglione del Tè è un accumulo di mobili (tra cui un vecchio frigorifero degli anni ’90 di marca Ocean) al centro della stanza – di nuovo, siamo in procinto di una partenza, anche in fuga, o di un arrivo? – sui quali e dentro i quali sono posizionate le 9 sculture di Una barca. Muovendoci nell’opera e avvicinandoci fino a sfiorare con le mani l’omaggio ai vinti, mentre lo sguardo ricade, come in un vortice, sul laghetto e sui mattoni in cemento (futuro in costruzione o rovina passata?) che fungono da base per la prima barca, siamo governati dal tempo e dal transito, dalla memoria e dalle promesse.
Chi sono i vinti? Esistono vinti e vincitori o esistono persone che sanno fare meglio o peggio? La poesia, la letteratura, la storia: tutte ci hanno tramandato l’epopea del mare e di chi, per mare viaggiava. Oggi il mare ci racconta un’altra storia, la storia dei vinti, per i quali la barca è tentativo disperato di fuga e di salvezza.
Sophie Ko non fa evidente riferimento ai vinti del mare, come istintivamente si tende a fare perché la memoria, il tempo e l’immaginazione, mischiate all’attualità, ci portano di fronte al dolore degli altri. Sophie Ko, elegante, silenziosa e travolgente, inneggia ai vinti, tutti, indistintamente. E – forse in maniera un po’ folle, ma folle è chi di follia accusa – è dai vinti che inneggia Sophie Ko che possiamo recuperare, e condividere, il più candido dei significati della barca: quello di attraversamento, di passaggio attraverso, che la vita sempre ci mette di fronte. Per raggiungere la meta o perché è la meta?
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