Dall’analisi della nozione di duty of care, principio che nella common law anglosassone prevede la responsabilità di prendersi cura di ciò che accade a qualcuno o a qualcosa, prende vita space as a duty of care, mostra collettiva in cui il curatore Daniele Capra ha scelto di riunire i lavori, di natura tridimensionale, di Simon Callery, Anneke Eussen, Jacopo Mazzonelli, Goran Petercol e Silvia Stefani.
Nello spazio di Galleria Studio G7, e nella pratica dei cinque artisti – benché caratterizzata da genesi e metodologie differenti – questo principio, che comunemente rappresenta l’obbligo di diligenza nei confronti di persone, oggetti e luoghi, e incarna il dovere di cura e rispetto per quello che esiste e testimonia il naturale e diretto coinvolgimento delle persone nelle situazioni e nel contesto, esemplifica come lo spazio possa essere il luogo del possibile, del rigore e della cura. Come le opere esposte sono azioni di consapevolezza nei confronti di queste tre dimensioni in relazione alla materialità, al volume, all’ordine, alla superficie, alla struttura e al limite fisico dei materiali, così il principio di duty of care è una forma di attiva partecipazione a ciò che è comune, in cui l’individuo si fa carico di agire nel rispetto dell’ambiente in cui è immerso.
Il curatore accompagna la mostra con un testo critico reso in forma di considerazioni su quello che ci circonda. Innanzitutto, spiega, «La parola spazio deriva dal sostantivo latino spatium, il quale, a sua volta, è prossimo al verbo patere, che significa “essere aperto”, e la radice sanscrita spa-, con il senso di “estendere” e “crescere”. Tale parola ha inevitabilmente in sé il senso di dilatazione, ampliamento o estensione, quindi strettamente connessa all’idea di ciò che è non limitato e non dotato di confini. Spazio è, quindi, astrattamente un luogo generico, non definito e di ampiezza infinita, nel quale possono trovare posto gli uomini, gli animali, le piante, le cose, gli oggetti, le rocce, il mare. Esso è, in buona sostanza, tutto quello che esiste in quanto dotato di una forma e di un’estensione tridimensionale».
E, prosegue, con la tesi secondo cui «Siamo immersi nello spazio, qualunque sia l’idea che di esso abbiamo. È spazio tutto quello che ci circonda, il vuoto tra noi e gli oggetti che vediamo, “inabissati nell’infinita immensità degli spazi che ignoriamo e che ci ignorano” (Pascal, Pensieri, 64). Lo spazio è astrattamente il luogo del visibile e dei fenomeni, ma abbiamo bisogno di addomesticarlo e viverlo per possederlo nelle sue più infinitesime articolazioni. Pur essendo consci che lo spazio sia infinito, siamo abituati a percepirlo e leggerlo solo attraverso gli elementi finiti che lo abitano, poiché sono facilmente decodificabili. È spazio occupato, chiuso e delimitato il nostro stesso corpo che contiene i nostri organi e i nostri pensieri, e il volume di tutto quello che esiste che è semplicemente altro da noi. È spazio libero e aperto ciò che invece è di mezzo, quella spugna invisibile, comprimibile e infinita che intuiamo esista e adattiamo alle nostre più diverse umane esigenze: pur delimitano la nostra finitezza, è infatti il necessario tessuto connettivo tra noi e tutto ciò che esiste».
L’interesse, la cura e il senso di responsabilità da parte dell’artista lo rendono non tanto un soggetto in sé, quanto piuttosto un campo da gioco rispetto cui misurare le proprie indagini. Così, per esempio, la ricerca di Simon Callery (1960, Londra, UK) nasce a partire dall’analisi del paesaggio, la cui presenza viene evocata attraverso la materialità della pittura. Il paesaggio diventa nelle sue opere uno spazio di tessuto dotato di volume che condensa l’esperienza della visione in una forma minimale dotata di elementi ricorsivi.
Le opere di Anneke Eussen (1978, Kerkrade, NL) sono spesso realizzate con materiali di risulta prelevati da un contesto e ricombinati senza alcun vincolo rispetto alle loro peculiarità funzionali. In tal modo l’artista conferisce un nuovo ordine agli oggetti che vengono dotati di una nuova semantica e di un ritmo visivo inatteso. La pratica di Jacopo Mazzonelli (1983, Trento) indaga invece gli aspetti della musica, del suono e della memoria per assenza, alludendo alla prassi strumentale, al ricordo e ai segni che il tempo lascia sugli oggetti. Le sue opere sono un deliberato atto di astensione dal mondo, in cui la tensione è data dal rigore del silenzio e dallo spasmo dall’attesa.
La radicale sintesi dei concetti è uno degli elementi centrali nella poetica di Goran Petercol (1949, Pola, HR), i cui campi d’indagine spaziano dalla semiologia agli aspetti formali dell’agire artistico. Con un linguaggio nitido ed essenziale egli investiga la grammatica delle cose, la luce, l’ombra e le possibilità topologiche offerte dagli oggetti. Il corpo e la postura sono gli elementi generativi delle opere di Silvia Stefani (1974, Bassano del Grappa), la cui pratica esplora le dinamiche della tensione e del limite fisico dei materiali. I suoi lavori, modellati sovente sulla metrica umana, sono dotati di una forte carica visiva e psicologica, originata dal continuo alternarsi di linee rette, segmenti spezzati e angoli aperti.
Giulia Cavaliere ricostruisce la storia di Francesca Alinovi attraverso un breve viaggio che parte e finisce nella sua abitazione bolognese,…
Due "scugnizzi" si imbarcano per l'America per sfuggire alla povertà. La recensione del nuovo (e particolarmente riuscito) film di Salvatores,…
Il collezionista Francesco Galvagno ci racconta come nasce e si sviluppa una raccolta d’arte, a margine di un’ampia mostra di…
La Galleria Alberta Pane, 193 Gallery, Spazio Penini e Galleria 10 & zero uno sono quattro delle voci che animano…
Si intitola “Lee and LEE” e avrà luogo a gennaio in New Bond Street, negli spazi londinesi della casa d’aste.…
Un'artista tanto delicata nei modi, quanto sicura del proprio modo d'intendere la pittura. Floss arriva a Genova in tutte le…