Visitare in questi mesi maledetti da un’altra folle guerra la mostra “The Parade” proposta al MAHJ – Musée d’Art e d’Histoire du Judaïsme di Parigi è stata un’esperienza angosciosa. Nella penombra del livello interrato del museo si inizia un percorso che insegue col fiato sospeso le 63 tavole di Si Lewen (1918-2016) come fotogrammi di un film in bianco e nero di guerra e massacro. Istantanee di una guerra apparentemente lontana che avrebbe dovuto insegnarci tutto su come cancellare le sue pulsioni dal nostro vivere civile ma invece ora riappare con le stesse immagini di terrore.
Falangi di eserciti in marcia di invasione, prima davanti a folle plaudenti e poi fra cadaveri, vittime straziate, dispersi imprigionati dietro reticoli di filo spinato. Una descrizione dell’esperienza diretta vissuta dall’artista nell’Europa devastata dalla guerra e poi sedimentata nella riflessione distaccata ritornato oltreoceano che ha depurato l’angoscia della visione immediata dall’emozione soggettiva per ricostruire immagini di una oggettività e lucidità assoluta. Opera pubblicata nel 1950, dimenticata e riscoperta nel 2010 da Art Spiegelman, l’autore di “Maus”, che si adoperò per farla conoscere e ora ne ha curato il bellissimo catalogo “Si Lewen, The Parade. L’Odyssée d’un artiste” (Flammarion).
Le tappe dell’esistenza di Si Lewen sono come un indice allucinante dell’epopea dell’Europa centrale nella prima metà del secolo scorso. Nasce in Polonia a Lublino, nel 1918, in una famiglia ebraica che negli anni venti si rifugia in Germania per sfuggire ai pogrom contro gli ebrei. A 5 anni Lewen decide che sarebbe diventato un artista; chiaramente dotato e fortemente influenzato dall’esplosione artistica della temperie di Weimar, anche se socialmente bollato come ragazzo ebreo polacco, riesce neanche quattordicenne a fare la sua prima esposizione. In seguito infatti avrebbe affermato «Il periodo di Weimar ha molto influenzato il mio lavoro», all’Espressionismo tedesco «Io ho aggiunto una dimensione di storytelling». Intanto si distaccava dalla tradizione cultuale ebraica. Quell’esperienza dura poco, fino alla caduta della repubblica di Weimar e all’avvento di Hitler, Lewen con la sua famiglia si rifugia in Francia per poi scappare nel 1935 a New York.
Nel 1941 con l’entrata in guerra degli USA, Lewen si arruola volontario nella celebre unità dei “Ritchie Boys” e ritorna in Europa come combattente nel Military Intelligence Service col quale partecipa alla liberazione del lager di Buchenwald; rimane sconvolto dalle cataste di cadaveri e dai sopravvissuti ridotti a larve e per riprendersi dal trauma trascorrerà sei mesi in un ospedale militare. Questa drammatica esperienza lo coinvolge e lo segna fortemente.
Ritornato negli Stati Uniti, riprese la sua produzione lavorando in un primo tempo in continuità con le esperienze del Bauhaus su opere di impronta quasi post-espressionista con evidenti rimandi a Feininger che ebbero molto successo; e solo nel 1950, cedendo alla pressione del ricordo dell’incubo vissuto nel conflitto, riuscì a dare piena forma all’angoscia di quegli anni nella serie di disegni di “The Parade” che espose a New York. Una rappresentazione, pubblicata anche in un’edizione a tiratura limitata, realista e allegorica dell’ascesa del nazismo, della guerra, della shoah, suggellata da un’immagine conclusiva di riconciliazione che ora appare forse troppo ottimistica.
Permeato dalla passione per il cinema muto, concepì questa sequenza di disegni densi e potenti, immagini asciutte come dei fotogrammi: le visioni d’insieme, che il ricorso a successivi ingrandimenti fino al dettaglio delle fisionomie dei militari, che esprimono tutte la stessa cieca determinazione di morte, o delle vittime segnate dalla sofferenza rendono straziante lo svolgimento di questo nastro narrativo di rappresentazioni concatenate in un ininterrotto filo spazio-temporale, geniale anticipazione del moderno fumetto.
Sia “The Parade” che gli altri suoi lavori ebbero riconoscimenti di critica e di mercato ma Lewen dichiarando «L’arte non è una merce e non ha prezzo», deluso e disilluso, dal 1976, cominciò a ritrarsi, finché, nel 1985, smise di dipingere, dedicandosi solo al supporto di operazioni e istituti sociali, politici o universitari. Questa riproposta, ora per caso particolarmente tempestiva, rende giustizia a un’opera di rara potenza in cui la sintesi artistica ha avuto la capacità di interpretare e descrivere la complessità e la tragicità dell’evento storico.
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