Pervasi da un pungente odore di plastica, che ci accompagnerà per tutta l’esibizione, entriamo nello spazio espositivo e ci troviamo di fronte a una alta parete ricoperta di fotografie di elaborati tatuaggi accostata a registrazioni audio, in cui le voci dei tatuatori e delle tatuatrici cercano di introdurre lo spettatore all’antichissima arte. L’installazione La voce del tatuaggio. Oggi tutte e tutti si tatuano tutto comprende circa 240 fotografie dei tatuaggi più originali selezionati da 30 studi, tatuatrici e tatuatori italiani e diverse minipillole audio in cui questi ultimi raccontano quello che per loro è il significato del tatuaggio. Dopo aver ammirato la varietà di queste esornative decorazioni corporee, superata la parete, ci troviamo davanti a un grande schermo multimediale che ci mostra come gli antichi simboli e i costumi tribali incarnati dai tatuaggi siano rimasti pressochè immutati in alcuni dei più remoti angoli del mondo; da qui in poi inizia un percorso cronologico che, attraverso testimonianze fisiche e multimediali, ci condurrà in un viaggio straordinario, dal tardo Neolitico ai giorni nostri. Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo è la nuova mostra inaugurata al Mudec di Milano, in scena fino al 28 luglio 2024.
I primi tatuaggi risalgono all’età dei primi uomini: in mostra possiamo osservare i tatuaggi sulla ricostruzione grafica del corpo di Otzi, il famoso Uomo del Similaun. La mummia naturale, scoperta nelle alpi Otzal al confine tra Italia e Austria, è rimasta ibernata tra i ghiacci per più di 5000 anni e così ha conservato intatte alcune parti del suo corpo, della sua pelle e dei suoi vestiti permettendoci di ottenere numerosi dettagli sulla vita dell’uomo dell’Età del Rame; sulla pelle di Otzi sono stati rinvenuti 61 tatuaggi, molti in zone identificate come punti di un ipotetico trattamento per i dolori articolari. Interpretandoli, gli studiosi hanno convenuto che la decorazione corporea anticamente fosse concepita come una forma di medicina o di trattamento per il dolore.
Spostandoci più avanti nelle sale – e nei secoli – vediamo l’uso del tatuaggio presso gli egizi come status symbol, utilizzato dai sacerdoti per identificare la propria appartenenza a una determinata casta o la devozione ad una specifica divinità. I greci conoscevano il tatuaggio, ma lo associavano a popolazioni e costumi barbari, inoltre nel pensiero greco non solo era associato a qualcosa di primitivo ma era addirittura equiparato alla marchiatura di un capo di bestiame o di uno schiavo fuggitivo; segnare il proprio corpo con dell’inchiostro era una prassi indegna e ben lontana dal concetto di bellezza e perfezione promulgato dalla cultura ellenica.
Inizialmente, anche presso i romani l’atto del tatuarsi era relegato a classi sociali ben specifiche, schiavi, soldati e gladiatori; questi tatuaggi potevano essere molto utili per identificare i prigionieri di guerra o i disertori. Successivamente vennero accettati anche dai patrizi e dagli aristocratici, ma rimanevano comunque un costume eccentrico e non pienamente condiviso dalla buona società. Anche in Russia i tatuaggi erano utilizzati per identificare i criminali: era pratica comune marchiargli la faccia con la scritta K A T, abbreviazione di Каторжник (Katorznik), che vuol dire letteralmente detenuto; la medesima pratica è riscontrata facendo un salto nell’Inghilterra del periodo coloniale, che marchiava con uno strumento appositamente sagomato a forma di D i disertori.
Sarà forse per la sua arrogata discendenza greca che storicamente la cultura occidentale non ha mai reputato il tatuaggio nulla di più che un qualcosa di eccentrico. Vediamo infatti in mostra citato l’esempio più lampante di quanto appena detto con la vicenda del principe Giolo, principe di Meangis: acquistato come schiavo dall’avventuriero inglese William Dampier venne esposto a Londra come la meraviglia del secolo, per via della morbosa curiosità che destava nella buona società vittoriana il suo esotico corpo d’ebano interamente ricoperto di tatuaggi. Nei Paesi europei, con l’affermarsi delle teorie di Cesare Lombroso in campo forense, il tatuaggio continua a non godere di ottima fama per tutto il Secolo d’Oro; il medico e giurista veronese lo considerava il trait d’union tra il criminale e il suo comportamento brutale associato ad un animo primitivo e non evoluto. In mostra vediamo infatti esposti rari campioni di pelle tatuata asportata ai detenuti di carceri italiane, corredati dalla relativa documentazione fotografica e risalenti presumibilmente alla seconda metà del XIX e prima metà del XX secolo.
Oltre che tra i criminali, il tatuaggio era diffuso tra i marinai europei durante il XVIII e il XX secolo, quando le navi erano il principale mezzo di trasporto per il commercio e le esplorazioni oceaniche; i tatuaggi diventarono popolari tra la gente “a terra” grazie ai racconti di viaggio e opere letterarie e artistiche che romantizzavano la vita di mare come ad esempio Moby Dick di Hermann Melville o i romanzi di Ernest Hemingway; dagli anni ’50 ad oggi abbiamo assistito alla graduale e costante normalizzazione del tatuarsi sulla pelle una scritta o un’immagine a noi cara. Oggi il tatuaggio è ampiamente accettato, salvo alcune rare eccezioni, nella società moderna occidentale. Che sia il ricordo di una persona scomparsa o di una ancora presente, che simboleggi la devozione ad un particolare culto, che sia realizzato per commemorare eventi significativi o che abbia un valore rituale, il tatuaggio rimane dopo secoli una delle espressioni più intime e identitarie dell’essere umano che riflette le esperienze, i valori e le percezioni individuali di ognuno.
Curata da Luisa Gnecchi Ruscone e Guido Guerzoni la mostra Tatuaggio. Storie dal Mediterraneo sarà aperta al pubblico sino al 28 luglio 2024.
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