«Il numero delle vite che entrano nella nostra è incalcolabile». L’ha scritto in una pagina di Qui, dove ci incontriamo John Berger, autore – anche – di Sul Guardare, a cui XNL Piacenza liberamente si è ispirata nella costruzione di un programma espositivo dedicato alla rilettura del patrimonio artistico diffuso della città e del suo territorio, tra tradizione e innovazione, attraverso il dialogo con opere di artisti contemporanei.
La frase di Berger in un certo senso presuppone l’esistenza di qualcosa che moltiplica l’esistenza individuale facendone uno sfaccettato contenitore di memorie e storie che ci precedono e mediante noi permangono. Vale a dire che l’io di ciascuno di noi è il prodotto in continuo divenire della relazione che abbiamo con con chi è entrato materialmente nella nostra vita e con chi l’ha immaterialmente segnata fissandosi nei nostri ricordi, magari attraverso un’opera d’arte. Ecco, a proposito di opere d’arte, hanno un’incredibile umanità e un’insuperabile capacità d’attenzione quelle di Berlinde De Bruyckere, Giovanni Angelo Del Maino e Carol Rama – al piano terra – e di Andrea Sala – al primo piano – esposte nella cornice di XNL Piacenza per dare forma, rispettivamente, all’Atto 2° e all’Atto 3° di Sul Guardare.
L’Atto 2°, che nelle parole della curatrice Paola Nicolin «è un’occasione per riflettere sulle tematiche attuali, come la rappresentazione del dolore e la sua liberazione nella costruzione della bellezza» trova nel Dolente di recente attribuito a Giovanni Angelo Del Maino un interessante punto di partenza per lo scambio esperienziale con alcune potenti sculture di Berlinde De Bruyckere e le preziose incisioni di Carol Rama. La scultura lignea di Del Maino, proveniente dalla Chiesa di S. Eufemia di Piacenza – grazie alla collaborazione con l’Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Piacenza-Bobbio – è stata sottoposta a uno studio di restauro, intrapreso dal Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale, che ne ha restituito la storia narrativa attraverso la riscoperta dell’autenticità e della bellezza.
Dall’anima del Dolente, nascosta per secoli sotto la patina del tempo, che è resiliente al dolore tra vulnerabilità e forza, si innesca con Berlinde De Bruyckere e Carol Rama un racconto che parla di dolore, di resilienza, di frammenti, di necessità di redenzione, che fissa la propria esistenza in un tempo ciclico in cui il futuro può precedere il passato e il passato può sussurrare il presente mentre lo sguardo si rinnova. È tenebroso e perturbante lo spazio buio che accoglie, come fari di luce, fiori, mani, pugni, parche e volti, potentissimi, delle incisioni di Carol Rama, che non era un’incisora, «a lei interessava solo la superficie che aveva davanti, – scrive Alexandra Wetzel, che collabora alla mostra – pronta ad accogliere il segno», e i corpi che si stringono, le coperte che stratificano e i rami che che si accasciano di Berlinde De Bruyckere. I due corpi immobili, in cera e tessuto, curvi su se stessi e senza arti, l’uno accompagnato da disegni e l’altro in una vetrina semi aperta (Aanéén-genaaid del 1999 e 20,2007 del 2007) e i due letti realizzati con l’impiego di una coltre di coperte, cera, legno, ferro, poliuretano e resina (Walburga 16 november ’18 e 16 november ’18, entrambi del 2019): di chi sono? Cosa rappresentano? Il corpo è esposto, spogliato, cancellato; il letto che doveva proteggerlo ha fallito: il visitatore può solo andare più vicino all’oggetto, fino a fondersi in esso per riflettere sui tanti volti della sofferenza e sulla resilienza come forza sublime.
L’Atto 3° è di Andrea Sala, che ha condotto nei depositi diocesani un’importante ricerca e che ha dato vita a un nuovo ciclo di opere profondamente aderenti al ciò che interessa l’artista: «far entrare lo spettatore in un meccanismo di rielaborazione di particolari strutture linguistiche culturali – in questo caso il rito, il simbolo e i relativi oggetti appartenenti alla sfera del sacro – contaminandole con altre forme, usi e significati».
Al centro della sala, Pedana, una struttura semicircolare, in legno dipinto di bianco, che si allunga nell’intero spazio, sorregge – e avvicina al contatto con la terra, con lo sguardo e con il corpo del vivente – un nucleo di 50 opere. Muovendoci intorno riconosciamo le Ceramiche bucate, alcune bifronti, a cui Sala ha dato forma morbida e sinuosa e impresso un foro al loro interno per permettere di guardare attraverso.
Poi ci sono le Zucche scritte e le Zucche vetrate, Sala del resto attinge alla natura come un campionario di forme. Quella della zucca è una forma generosa, tanto da essere usata, nei secoli, come contenitore. Per quelle scritte – tra cui riconosciamo alcune parole, come «minerale», «naturale», «silicia» – Sala ha utilizzato la tecnica dello smalto, legata alla storia dell’oreficeria sacra e profana; quelle vetrate invece, veri e propri caleidoscopi che amplificano i riflessi, la tecnica è quella della vetrata artistica «per me interessantissima – soiega l’artista – in quanto capace di dar voce a un racconto, nel mio caso della zucca e di simbolicamente parteciparlo dell’atto creativo, tramite la luce».
In gioco ci sono, senza dubbio, dei topoi forti: le tenebre, il muoversi nel buio il perdersi, ma anche l’alzarsi di un sipario che sgombra l’orizzonte. Nell’Atto 2° e nell’Atto 3° finitezza e speranza, disorientamento e lucidità, terra e cielo si tengono e fluidamente si concatenano. Ed è una questione di sguardi, perché dal guardare si irradia l’enigma del senso.
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