Categorie: Mostre

Suzanne Valadon pittrice senza compromessi: la sua grande monografia al Pompidou di Parigi

di - 22 Marzo 2025

Salendo la scala mobile del Centre Pompidou – prima della chiusura per restauro prevista a settembre 2025 – si ammira, rampa dopo rampa, una Parigi sempre più aerea, astratta. È la Parigi che nel secondo Ottocento accolse Suzanne Valadon (Bessines-sur-Gartempe, 1865 – Parigi, 1938) ancora bambina, trasferitasi nel quartiere di Montmartre insieme alla madre. Accadde quando si chiamava soltanto Marie-Clémentine, ben prima che Henri de Toulouse-Lautrec la ribattezzasse Suzanne, in riferimento alla Susanna biblica, la giovane circondata da uomini ben più anziani di lei. Suzanne Valadon già a quattordici anni lavorava come modella per i più noti – e squattrinati – pittori di Montmartre. Proprio durante le lunghe pose, con enorme capacità di osservazione, imparò il mestiere di artista.

Suzanne Valadon, Adam et Eve, 1909 Huile sur toile, 162 × 131 cm. Achat de l’État, 1937, Paris, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, Inv. AM 2325 P. Crédit Photo : Centre Pompidou, MNAM-CCI/Bertrand Prevost/ Dist. GrandPalaisRmn

Modella, sarta, pittrice, madre… persino acrobata circense. Suzanne Valadon fu una donna eclettica che visse per l’arte e attraverso l’arte. La mostra a lei dedicata, curata da Chiara Parisi, Xavier Rey e Nathalie Ernoult, giunge con Parigi alla sua quarta tappa, operando così un simbolico ritorno a casa.

Suzanne Valadon, La Chambre bleue, 1923. Huile sur toile, 90 × 116 cm. Don Joseph Duveen, 1926, Paris, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, LUX.1506 P, en dépôt au musée des Beaux-Arts de Limoges. Crédit Photo : Centre Pompidou, MNAM-CCI/Jacqueline Hyde/ Dist. GrandPalaisRmn

La mostra inizia con una piccola e sobria agorà popolata dagli autoritratti dell’artista, dalla giovinezza all’età adulta. Lo sguardo tuttavia cade su un’opera che tuttavia non ritrae l’artista. Si tratta di una tela singolare e dai colori brillanti, la stessa che appare nel manifesto dell’esposizione. Il soggetto de La camera azzurra è una giovane donna che, sdraiata sul fianco come una novella odalisca, fuma e ozia nel suo pigiama a righe verdi. È formosa, certo. È bella, certo. Ma lo è per sé stessa: non c’è nessun pubblico a cui ammiccare e, dopotutto, stuzzicare lo sguardo altrui non rientra nei suoi interessi. È spavalda: non ci guarda. È colta: lo dimostrano i libri adagiati accanto a lei. Ma se i suoi lineamenti non sono quelli di Suzanne, come mai questo quadro si trova in mezzo agli autoritratti dell’artista? Non si tratta di un errore: lo si può senz’altro definire un autoritratto spirituale o metaforico. Quella effigiata ne La camera azzurra è infatti una donna moderna, indipendente e fiera; in una parola: libera. Proprio come la protagonista di questa mostra.

Suzanne Valadon, Autoportrait aux seins nus, 1931. Huile sur toile, 46 × 38 cm. Collection particulière, Suisse. Photo © Akg-images

Libera di raffigurarsi, per esempio, in un dipinto del 1931 esposto poco più avanti, a sessantasei anni, con il volto solcato dal tempo e il seno nudo. In un sovvertimento significativo, dunque, Suzanne Valadon non solo veste l’odalisca, abbandonando la sensualità che ne aveva sempre connotato l’iconografia tradizionale, ma arriva persino a disgiungere la nudità dalla voluttà, rappresentandosi in modo schietto, mentre guarda con fierezza oltre la tela.

È chiaro: il soggetto inesauribile dell’arte di Suzanne Valadon è Suzanne Valadon stessa. Non solo perché non si poteva permettere di pagare una modella, ma anche per il puro gusto di osservarsi, scandagliarsi e, chissà, cercare in sé stessa la risposta alle proprie domande.

Suzanne Valadon, La Poupée Délaissée, 1921. Huile sur toile, 135 x 95 cm. National Museum of Women in the Arts, Washington D.C, gift of Wallace and Wilhelmina Holladay, Inv. 1986.336. Photo © National Museum of Women in the Arts, Washington, D.C. Photograph by Lee Stalsworth

Immediatamente dopo gli autoritratti si può ammirare una piccola raccolta di opere, tutti ritratti femminili e quasi tutti nudi, dei maestri per cui Suzanne posò e da cui apprese l’arte della pittura. Vengono colte in un erotismo rubato, le donne dipinte da Renoir, Henner, Lautrec e Degas: sono, insomma, l’opposto delle donne bonarie di Valadon, raffigurate in situazioni confidenziali, mentre si lavano, si pettinano, o si ammirano in uno specchio, talvolta ricambiando amichevolmente lo sguardo dell’osservatore. Alla prima sezione ne seguono altre otto, ognuna delle quali sviscera un differente nucleo tematico dell’opera della pittrice. Il percorso è inoltre intervallato da opere di amiche e colleghe, valido termine di paragone sulle riflessioni artistiche che altre donne andavano facendo negli stessi anni. La mostra è anche arricchita da teche contenenti oggetti personali dell’artista, come fotografie d’epoca o lettere manoscritte, inviate e ricevute da amici, amanti o altri artisti.

Suzanne Valadon, Le Lancement du filet, 1914. Huile sur toile, 201 × 301 cm. Achat de l’État, 1937, Paris, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, Inv. AM 2312 P, en dépôt au musée des Beaux-Arts de Nancy. Crédit Photo : Centre Pompidou, MNAM-CCI/Jacqueline Hyde/ Dist. GrandPalaisRmn

Passo dopo passo, si scoprono così le pietre angolari della sua opera: l’importanza di avere un occhio sempre vigile, i membri della sua famiglia e i suoi amici, gli intellettuali che la sostennero, i luoghi della sua vita, e non ultimo, il disegno. A esso sono dedicate intere sezioni, collocate in stanze a parte e caratterizzate dal colore nero delle pareti. Qui l’artista coglie attimi di intimità dei suoi cari: il compagno di vita André Utter, i cagnolini Arbi e Misse o il figlio Maurice Utrillo (anch’egli noto pittore), ritratto da bambino, per esempio nel momento del bagno insieme alla nonna Madeleine, e da adulto, con i lunghi baffi appuntiti e lo sguardo malinconico. Si comprende che il fulcro della ricerca artistica della pittrice fu, fin dagli inizi, la spontaneità. Suzanne Valadon non volle mai idealizzare i suoi soggetti ma trascrivere fedelmente la verità del reale: perciò dipinge con la stessa dignità Lily Walton, la sua governante, e le donne dell’alta società che dagli anni Venti iniziarono a farsi ritrarre da lei. Non a caso Degas, uno dei primi artisti a sostenerla acquistando proprio i suoi disegni, definì questi ultimi «dessins méchants et souples» (“disegni crudeli e morbidi”, ndr), evidenziandone insieme il carattere tagliente e vigoroso e la morbidezza del tratto.

Suzanne Valadon, Portrait de Mauricia Coquiot, 1915. Huile sur toile, 91 × 73 cm. Donation Charles Wakefield-Mori, 1939
Paris, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, AM 3800 P, en dépôt au musée des Beaux-Arts de Menton. Crédit Photo : Centre Pompidou, MNAM-CCI/Philippe Migeat/ Dist. GrandPalaisRmn

Un vasto settore della mostra è dedicato al tema del nudo. In queste opere Valadon entra in un campo dominato dagli uomini. «Il sesso maschile è quello che ha costruito il corpo della donna nello spazio pittorico, ed è quello che lo esamina nello spazio della parola scritta», scrive Erika Bornay nell’Introduzione a Las hijas de Lilith, mentre Virginia Woolf spiega nel 1920 che è proprio per questo motivo che nell’immaginario collettivo si consolidano gli stereotipi femminili: perché gli uomini rappresentano la donna sempre come vorrebbero che fosse o come temono che sia.

Suzanne Valadon, Vénus noire, 1919
Huile sur toile, 162 × 97 cm. Donation Charles Wakefield-Mori, 1939, Paris, Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, Inv. AM 3780 P, en dépôt au musée des Beaux-Arts de Menton. Crédit Photo : Centre Pompidou, MNAM-CCI/Philippe Migeat/ Dist. GrandPalaisRmn

Prendere in mano una penna o un pennello significa prendere la parola, la rivendicazione del diritto a raccontarsi da sole. Ma a essere chiamata in causa è anche la riflessione sul guardare e l’essere guardati: se guardare è un atto attivo e di potere, al contrario essere guardati è un’azione passiva, che pone in una situazione di fragilità. Emblematica è, in questo senso, la grande tela del 1911 intitolata La gioia di vivere, protagonista della settima sezione dell’esposizione. L’opera si rifà al classico tema delle fanciulle in mezzo al verde, immortalate quasi di nascosto mentre fanno il bagno, con esempi illustri in Matisse (omaggiato anche nel titolo), Cezanne, Degas, Manet e così via.

Centre Pompidou – exposition Suzanne Valadon 2025, vue de salle sans public Crédit Photo Audrey Laurans

Suzanne Valadon inscena qui una complessa rete di sguardi: l’unico uomo presente, nudo e con le sembianze di Utter, è distaccato rispetto alla comitiva delle fanciulle, anch’esse nude, e le ammira da lontano. Questa condizione di ammiratore dovrebbe perciò attribuirgli un potere rispetto a loro. Ma chi è realmente il voyeur? Chi guarda e chi è guardato? Con sottile ironia, Suzanne Valadon ribalta il gioco: è il suo lo sguardo che domina tutti. Domina persino l’uomo, che ricopre dunque un doppio ruolo di soggetto-oggetto. Come alcune altre, la tela si trova non lontano dai bozzetti preparatori: è, questa, un’accortezza espositiva estremamente acuta, che congiunge l’opera definitiva ai processi creativi e mentali su cui essa si innalza.

Centre Pompidou – exposition Suzanne Valadon 2025, Crédit Photo Audrey Laurans

I nudi di Suzanne Valadon sono sempre rispettosi e veritieri; il suo scopo è di restituire l’individualità unica dei suoi soggetti, in maggioranza femminili. I corpi che dipinge, in atteggiamento sereno e privi di imbarazzo, sono corpi veri, peculiari, mai generici o idealizzati. A sottolinearne la realtà – nonché la modernità – sono anche i peli pubici, che l’artista non si esime dal ritrarre e che causarono un vero scandalo proprio per la concretezza che conferiscono ai corpi.

«Il faut peindre dans la vérité, avec amour» (“Bisogna dipingere nella verità, con amore”, ndr) disse la pittrice durante un’intervista del 1922, citata in uno dei pannelli espositivi della mostra. E fu proprio così che Suzanne Valadon dipinse, con verità e amore, fino alla fine.

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