Triennale Milano, rinnovando la sua collaborazione con la Fondazione Cartier (qui la nostra recensione della mostra a Parigi), presenta la mostra di Sally Gabori (Mirdidingkingathi Juwarnda), considerata una delle più grandi artiste australiane delle due ultime decadi. La Fondazione rinnova con questa mostra il suo intento di valorizzare storie che solitamente vengono poco considerate dalle fondazioni istituzionali. Un’artista dall’incredibile storia umana, oltre che artistica, Sally è infatti una donna Kaiadilt, che è stata l’ultima popolazione aborigena australiana a entrare in contatto con i colonizzatori europei.
La storia della pittrice parla di appropriazione, da parte dell’uomo bianco, e di conseguente riappropriazione e rivincita artistica in età avanzata. L’artista ha infatti cominciato la sua attività pittorica nel 2005, all’età di 80 anni, continuando fino ai suoi ultimi anni di vita, sviluppando un lavoro senza apparenti legami con altre correnti estetiche, in particolare all’interno della pittura aborigena contemporanea.
Nata nel 1925 sull’isola di Bentick, il suo nome nativo, Mirdidingkingathi Juwarnda, deriva dalla tradizione Kaiadilt, che stabilisce che ognuno prende il nome in base al luogo di nascita e al proprio antenato totemico. Pertanto, Mirdidingkingathi indica che Sally Gabori è nata a Mirdidingki, una piccola insenatura situata a sud di Bentinck, e che il suo «animale totem» è juwarnda, o delfino.
Le persone delle Prime Nazioni dell’Australia descrivono l’identità dell’Australia per quello che è ed è sempre stata: un’enorme terra remota governata dalle leggi della natura. Dopo aver negato l’identità della popolazione nativa, addirittura proibendo l’uso della propria lingua, l’espressione di artisti come Sally ha portato avanti un patrimonio che si credeva ormai perso e distrutto, attraverso icone e opere d’arte che celebrano la terra e chi la abitava. Una donna, che ha subito una condizione forzata di esilio dalla sua comunità, ha trovato nell’arte una modalità di liberazione. Grazie ad artiste come lei, parte di questo ricco patrimonio è finalmente visibile al resto del mondo.
La mostra negli spazi della Triennale è pensata per essere vissuta nello spazio: tele enormi dalle pennellate gentili e decise accompagnano il visitatore attraverso luoghi e odori che si susseguono tela dopo tela. Nei nove anni della sua carriera artistica, Sally Gabori ha dipinto più di 2.000 tele, esplorando le molteplici risorse dell’espressione pittorica.
Il prolifico lavoro di Gabori è dedicato in questa mostra a sei siti principali, ciascuno rappresentato diverse centinaia di volte. Il percorso espositivo svela i più importanti: Thundi, Dibirdibi e Nyinyilki, oltre a una serie di lavori realizzati in collaborazione con altri artisti Kaiadilt.
Durante l’inaugurazione della mostra, la nipote e la figlia di Sally, rispettivamente Tori e Amanda, hanno espresso con parole di grande commozione e forza quanto siano orgogliose che il lavoro della loro famiglia venga finalmente celebrato anche in Europa.
Nyinyilki, nella parte sud-est dell’isola, è una laguna caratterizzata da una distesa di ninfee, una terra umida formata da vari billabong, originati da meandri fluviali abbandonati che risultano in una pozza d’acqua stagnante collegata a un fiume. Questa terra ha significato per Sally il ritorno alle proprie origini, infatti era questo il luogo dove fu stabilita nel 1980 una base Kaiadilt, in cui solitamente le donne si occupavano della pesca, così come un tempo precedente alla colonizzazione ed esilio forzato. I dipinti riferiti a questo nome ristabiliscono un contatto con la terra ancestrale e un anelato ritorno a casa, ritrovando il centro, azzurro, pennellato, dove tutto ha avuto inizio e può ora continuare.
I dipinti dell’area Thundi, regione nel nord dell’isola di Bentick, evocano il luogo di nascita del padre di Sally, Thundiyingathi Bijarrp, ed esprimono la bellezza naturale dell’isola nei suoi paesaggi e fenomeni naturali, spesso disastrosi. Fu infatti un ciclone, nel 1948, a costringere la famiglia di Sally ad abbandonare l’isola, dopo le precedenti numerose pressioni – ed oppressioni – dei missionari presbiteriani iniziate nel 1940. Tele come ‘Morning Glories’ sono reminescenti dei ricordi infantili dell’artista, rappresentando le formazioni cilindriche delle nuvole passanti. In queste tavole è particolarmente visibile la rapidità dell’artista nel dipingere strato su strato, non lasciando nemmeno al colore il tempo di asciugare, lavorando su trasparenze, toni e armonie di colori.
La parte più sorprendente dell’esibizione vede protagonisti due lavori collettivi dell’artista, che dopo aver iniziato la sua carriera con tele di piccolo formato utilizzando pennelli sottili e colori non diluiti, passa nel 2007 a tele monumentali fino a 6 metri di larghezza. In seguito ad una visita di ritorno al Mornington Art Centre nello stesso anno, inizia una collaborazione con altre donne artiste Kaiadilt, incluse le proprie sorelle e nipoti. In opere come ‘Sweers Islands’ vediamo forme ed arcipelaghi inserirsi l’uno dopo l’altro creando una continuità e nuove possibili costiere. Attraverso video di repertorio, osserviamo l’artista alle prese con la tela e altre donne che la accompagnano in questa missione solitaria, ma collettiva, da compiere all’unisono.
Nella sezione Dibirdibi, il luogo più ampiamente rappresentato da Sally Gabori, troviamo una celebrazione assoluta della terra nativa e dell’amore verso il marito, Pat Gabori. Gli anni di esilio sono finiti, è tempo di lodare la storia Kaiadilt e la sua gente. Dibirdibi si riferisce infatti a una delle storie relative alla creazione dell’isola di Bentick: traccia il suo viaggio creativo lungo la costa dell’isola di Bentinck nel Golfo di Carpentaria, nell’estremo nord del Queensland.
La mostra si presenta come una vasta e spaziosa celebrazione del lavoro di una donna che ha trovato negli ultimi anni di vita la libertà e la necessità di spaziare coi colori e le forme per ritrovare ciò che le era stato sottratto.
Una storia straziante che ci insegna la rabbia attraverso la delicatezza delle pennellate e dei colori, un ritorno al vocabolario perso e alla parola mozzata attraverso la natura, i suoi ideali codici irraggiungibili, e le forme ritrovate.
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