Un messaggio inviato nello spazio. L’ispirazione per la mostra che ha appena inaugurato, a cura di Pietro Gaglianò, risale al 1977. Erano altri tempi, pieni di ottimismo, con quella diffusa convinzione che ci fossero altre forme di vita nell’universo che fremevano nell’attesa di incontrarci.
E quindi la NASA si propone per fare il primo passo, spedendo nello spazio le due sonde Voyager, ognuna carica di tutti i mezzi per descrivere l’uomo ad un estraneo, immagini, musiche, saluti in diverse lingue. E la frase che racconta l’Italia è proprio ‘Tanti auguri e saluti’, saluti che probabilmente non arriveranno mai a nessuno, viste le scarse possibilità che queste sonde raggiungano qualche altra forma di vita. L’evento diventa spunto di interessanti riflessioni sulla precarietà, l’intervallo indefinito, il galleggiamento tra sparizione e rivelazione e una tenace ironia come possibile resistenza agli abusi di potere.
Filo conduttore della mostra, l’esporre una serie di lavori dell’artista degli ultimi anni, che seguono questa traccia della sospensione, della condizione di soglia, tra interno ed esterno, visibile e invisibile, pubblico e privato, comico e tragico, personale e politico.
«L’intervallo, il congelamento, l’apnea, la precarietà, un moto ascensionale dell’emersione, l’epifania di qualcosa che è nascosto, che appare e si rivela»
La soglia. È fulcro del lavoro di Iginio de Luca da sempre, attento a quei confini labili, quelli in cui avvengono i passaggi di stato, in cui la percezione di chi osserva trasforma le persone, i luoghi e le cose in qualcos’altro.
E una tenace ironia. Un elemento identificativo dei lavori dell’artista, l’unico mezzo che si sente di poter usare come possibile resistenza agli abusi di potere. Una riflessione che contrappone l’azione positiva (la dichiarazione di un sé individuale o collettivo, la produzione di pensiero critico) alla passività, quando si subisce, il controllo occulto, la propaganda. Una linea sottile, sulla quale si inseriscono i lavori di De Luca, che aggiorna il lavoro degli scienziati della NASA del 1977, radunando nuovi oggetti, parole e suoni.
Due dispositivi, sono quelli attraverso i quali si svolge l’esperienza del visitatore. Il primo, quello visivo, consiste di una cospicua struttura in tubi innocenti che regge due pannelli sui quali ogni giorno vengono affissi altrettanti manifesti, immagini tratte dai Blitz compiuti da De Luca nello spazio pubblico o da altre opere, sempre connesse alla sfera dei rapporti tra individuo e sistemi di potere. Il secondo dispositivo, sonoro, consiste in una struttura analoga dove due casse trasmettono in loop una sequenza di opere audio, sonorizzando materiali, luoghi, inni nazionali. Due dispositivi, messi in relazione da un megafono installato sulla parete e attrezzato di un motorino che lo fa ruotare di 180 gradi, l’apertura, coperta da uno specchio, rende il visitatore parte della riflessione. È la posizione che la figura dell’artista, inteso come soggettività nella grammatica contemporanea della produzione culturale, copre da quando ha assunto autonomia rispetto ai poteri politici e spirituali. È la posizione che a fatica alcuni artisti oggi riescono ancora a mantenere rispetto a nuovi poteri amministrativi e finanziari del sistema dell’arte.
L’artista quindi non crea mondi ma li svela.
Una stratificazione tra flussi visivi e sonori, questo comporta un lungo tempo di ascolto e un ritorno quotidiano in galleria, in un percorso che si conclude con un’opera in uno spazio appartato e buio nel retro, dove lampeggia al ritmo del codice morse un light box con l’immagine di un chiosco di fiori e piante. Roma è costellata di queste cellule tropicali aperte 24 ore al giorno, in modo misterioso, enigmatico, quasi come sonde spaziali immerse nel buio cosmico e lanciate come un messaggio di resistenza, di pura sopravvivenza, o solo come un laconico saluto ai passanti. Il messaggio battuto dal lampeggiare morse, naturalmente, è Tanti auguri e saluti.
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