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Tempo, memoria e condizione umana. La mostra di Ugo Rondinone a Milano
Mostre
di Luca Maffeo
La mostra Terrone di Ugo Rondinone (Brunnen, 1964) a cura di Carolin Corbetta presso la Galleria d’Arte Moderna di Milano è un ponte tra passato e presente, un messaggio di rivincita sociale e una proposta di rinascita e identità. Eppure, c’è di più. Un gioco di assonanze capace di dare conto della necessità attualissima della memoria come fondamento di una cultura. Dirimpetto a Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo, l’artista svizzero ha costruito la sua scena. Nell’intuizione di una visione olistica che permette di osservare il singolo lavoro e l’insieme.

I nudi di cera e terra risuonano (Nudes, 2010), infatti, nelle pose che lo hanno reso noto, quali esseri umani adorni di atteggiamenti tra i più semplici e costellati di mille pensieri. Soli e uniti, si prendono il loro spazio tra la vita e il costume del secondo Ottocento, passando da La lettrice di Giovanni Faruffini e la Vivandiera di Domenico Induno, non distanti dalle cere di Medardo Rosso. Che sia questo dovuto a un legame indissolubile? Cosa ha trovato l’artista nella pancia di una collezione ormai secolare? Rondinone rimane tale, di là da ogni posticcio paragone, con la sua intelligenza e la sua profondità. Tragico e, a dir poco, classico. Non per ripetizione di forme, ma per via della narrazione di sé e dell’altro che solo i grandi artisti riescono a rendere nella specificità di un lavoro misto a vissuto. La manifestazione non giustificabile con alcun tema, nemmeno il più odierno, nemmeno il più corretto. Lo abbiamo detto, c’è molto di più, se è vero che tutto comincia, almeno in questo caso, da un alfabeto che lo stesso artista si ritrova addosso. Nella Sala da Ballo di fronte a Il Quarto Stato c’è forse l’opera più azzardata. The large alphabet of my mothers and fathers (2024), probabilmente vittima di un obbligatorio dialogo con il quadro più antico, rimane, tuttavia, indicativa.

Un grande formato rettangolare su cui l’artista ha raccolto una serie di oggetti da lavoro d’inizio secolo. Gli stessi che gli immigrati italiani usavano una volta trapiantati a Long Island, e rimando indiretto dello spostamento che ha visto i suoi genitori muoversi dalla natia Matera verso la Svizzera. Come nei nudi, il congelamento del dato diventa dramma. Prigioniero di uno stato eterno che restituisce la commozione di un vuoto umano e “consente l’emergere del possibile” (J.M. Prévost). La poetica di Rondinone va colta sul momento. Legata, certo, alle necessità più impellenti del presente, ma non per questo a esso incatenata. È il tempo che è padrone, pungente a tal punto che sembra non passare mai. È lì, insito nella scultura, come paralizzato tra gli alberi fusi in alluminio che nel cortile della GAM si rivelano in un istante sintetico del loro trascorso. Alberi sempre attuali e insieme antichissimi, di cui ogni singolo elemento prende il nome da diverse lune piene (cold moon; summer moon, 2011). Un memoriale che, pur attraverso la giustezza del riscatto sociale, regala il ricordo e la compostezza di una propria condizione. Iniziati vent’anni addietro dopo aver acquistato un uliveto nei pressi di Matera, trasferiscono il loro esistere dal qui e ora a un là passato che può essere solo menzionato. Così si traccia il senso, una direzione stazionaria che comunque può essere percorsa. Qui inizia il lavoro dell’artista, almeno idealmente, ancora serrato tra il manichino di Cry me a river del 1995, e il silenzio (Thank you silence) tradotto in scultura al museo di Leuven nel 2013. Sculture e installazioni, dipinti persino, dei quali si potrebbe dire molto, oppure nulla se non si facesse fatica a prendere sul serio quanto detto dall’artista stesso: “il linguaggio è una partita persa”. Ciò che è vero, malgrado le prerogative che spesso imbalsamano le mostre alla loro presentazione, è in realtà l’intuizione nell’opera di “una vita personale ritirata nell’infinito della vita impersonale”. Momenti di essa “avvolti da un’estraneità che rimane un mistero” (C. Rondeau).
