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The Uncanny House: viaggio perturbante nella casa di Goethe, a Roma
Mostre
Fino al primo settembre 2024, all’interno della dimora dove Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno, 1749 – Weimar, 1832) visse durante la sua permanenza a Roma, tra il 1786 e il 1788, si potrà visitare The Uncanny House. La mostra, a cura di Ilaria Marotta e Andrea Baccin, è incentrata sul concetto di perturbante legato all’ambiente domestico. A esporre, 18 artisti internazionali: Mathis Altmann, Dora Budor, Tomaso De Luca, Anna Franceschini, Lenard Giller, Caspar Heinemann, Mélanie Matranga, Brandon Ndife, Giangiacomo Rossetti, Gregor Schneider, Max Hooper Schneider, Augustas Serapinas, Ser Serpas, Giovanna Silva, Analisa Teachworth, Nico Vascellari, Rachel Whiteread e Marina Xenofontos.
Il tema della collettiva si apre sin da subito a un dialogo con lo spazio che la ospita: una casa, luogo all’apparenza familiare e sicuro dove, però, si possono annidare insidie e angosce che solo chi è al suo interno è in grado di percepire. Questo dualismo si manifesta nel percorso espositivo, dai toni scuri e ricco di dissonanze, oggetti abbandonati e rotti, luci e ombre, trappole e case delle bambole; tutto questo genera negli spettatori un invito ad avvicinarsi e ad osservare meglio le opere che si hanno davanti, infondendo al contempo un senso di disturbo e di estraneità all’ambiente che li circonda.
Nella seconda sala, sono presentati una serie di still-life video di Gregor Schneider (Rheydt, 1969). Lì l’artista si ritrae durante lo smantellamento di una casa, in un’azione speculare a quella della nota Haus u r, in cui ogni elemento veniva moltiplicato ripetutamente, dando vita ad una dimensione claustrofobica. Questa volta si tratta della dimora natale del Ministro della Propaganda del Terzo Reich Joseph Goebbels (Rheydt, 1897 – Berlino, 1945), che l’artista ha scoperto e acquistato con l’obiettivo di demolire e svuotare totalmente, attuando un processo di eliminazione fisica di ogni elemento spaziale. L’intenzione è cancellare ed esorcizzare gli orrori del passato da intendere come metafora della perdita della memoria storica che caratterizza i nostri tempi. Questo duplice approccio all’opera sollecita lo spettatore ad interrogarsi sul significato della memoria e sull’influenza che quest’ultima ha sul presente.
Proseguendo sulla lunga moquette nera scelta per l’allestimento, che dà quasi l’idea di camminare su qualcosa di vivo, le opere in cui ci si imbatte continuano a suscitare nello spettatore sentimenti discordanti. Ne è un esempio Told and retelling, di Ser Serpas (Los Angeles, 1995): un assemblage di oggetti perduti e ritrovati – uno sgabello, la tendina di una culla, una tela e dei supporti lignei – la cui forma frammentaria cattura immediatamente l’attenzione di chi guarda, evocando lo stato di abbandono tipico delle soffitte, dove tra gli oggetti accatastati si nascondono i ricordi di una vita. Pertanto, Serpas lascia spazio alla ridefinizione di nuove figure, più o meno inquietanti. Il richiamo è alle soffitte abbandonate e alle memorie che vi si nascondono e, come tutte le composizioni dell’artista, non vi sono istruzioni per l’assemblaggio. Dunque, l’opera non è mai uguale a se stessa e vive sospesa in un precario equilibrio, invitando il pubblico a confrontarsi con l’instabilità delle strutture che considera sicure e familiari.
La mostra si conclude con La quinta stanza (The Fifth Room), opera site-specific di Nico Vascellari (Vittorio Veneto, 1976), che attua una vera e propria operazione meta-spaziale, permettendo ai visitatori di entrare virtualmente in un’ultima stanza (la quinta, appunto) fuori dalla loro cognizione spazio-temporale. Attraverso uno schermo che trasmette le immagini riprese da una videocamera di sorveglianza, ci viene permesso di osservare ciò che accade al suo interno: una lampadina si muove con moto circolare in uno spazio vuoto, senza mai fermarsi, in un loop angosciante. L’opera, superando la dimensione fisica della mostra, rimanda ai segreti che le realtà domestiche spesso nascondono e richiama anche la storia di Guido Zabban, uomo ebreo che, nel 1943, si nascose per nove mesi dai tedeschi, nello stesso palazzo che ospita la mostra, sfuggendo alla deportazione.
The Uncanny House sfida la comune percezione della casa come ambiente protetto, rivelandone i lati oscuri e angoscianti. L’obiettivo è sia suscitare una riflessione inquietante sul concetto di domesticità, sia invitare il pubblico ad esplorare le proprie paure ed insicurezze.