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Tornare bambini è un gioco serio: la poetica di Valerio Berruti in mostra ad Alba
Mostre
Il titolo, More than kids, riecheggia, parafrasandolo, quello di un famoso libro di Patti Smith (2010), e allude alla dimensione, se non simbolica certo molto più ampia di quello che potrebbe apparire a una lettura superficiale, dell’opera dello stesso Berruti. Nella mostra ospitata alla Fondazione Ferrero di Alba fino al prossimo 4 luglio, e curata da Nicolas Ballario e Arturo Galansino, i bambini sono il soggetto principale dei lavori dell’artista, come molti sanno, ma nella sua poetica sono sempre il tramite per alludere ad altro. I bambini sono fragili, sensibili, sanno giocare per ore perdendosi nel proprio mondo, hanno la fantasia nelle tasche e passano facilmente dal riso al pianto. Soprattutto amano con semplicità, sanno litigare e fare pace dimenticando tutto e fanno amicizia in un minuto. Saremmo così anche noi, se con gli anni e l’abitudine non nascondessimo queste qualità nel fondo dell’anima, per trasformarci in esseri troppo uguali a tutti gli altri, piegati anche alle più inutili convenzioni sociali e dimentichi dell’originaria capacità immaginativa. Così, i bambini di Valerio Berruti (Alba, 1977) sono un po’ un ritorno all’origine, all’essenza, a qualcosa che riguarda ciascuno di noi. Per questo, quelli che popolano le sue opere, sono molto più che bambini. Sono la bambina e il bambino interiori che ancora vivono dentro la nostra psiche, e che, senza aver mai davvero dimenticato come si gioca, come si ama, come si soffre e si è felici, spesso e volentieri, a sorpresa (ma si sa che ai bambini piacciono le sorprese), vengono a salvarci dalle situazioni più disparate e difficili della vita adulta.
È la prima volta che la Fondazione Ferrero ospita una mostra di un artista mid-career, dopo gli eventi dedicati ai mostri sacri Penone e Burri. Ma le opere di Berruti sanno occupare lo spazio espositivo con disinvoltura.

La mostra si apre con una scultura di grandi dimensioni in cemento armato, posta all’esterno della Fondazione, che rappresenta il busto di un bambino, appunto, con le braccia incrociate e lo sguardo rivolto verso il cielo, in un moto insieme di speranza e pacata determinazione. A questa scultura ne fa eco un’altra, all’interno e subito all’ingresso del percorso espositivo. Questa volta è una bambina vestita da ballerina, dallo sguardo ed atteggiamento sognante, realizzata in metallo fuso e di dimensioni meno imponenti, ma sempre maggiori dell’altezza naturale.
Seguono, nelle diverse sale, alcune installazioni in cui alcune sculture formano cerchi, visioni, sorta di riti laici che hanno a che fare con la terra (quella delle langhe, dove nascono le nocciole) e il mondo dell’artista. Tre bambine sono sedute l’una con le spalle rivolte all’altra, le gambe penzoloni e lo sguardo lontano. Questa scultura, così come un’altra che rappresenta la testa di una fanciulla, sarà duplicata in dimensioni monumentali per la mostra a Palazzo Reale a Milano. Ad indicare la scala della futura riproduzione, c’è una piccola riproduzione dello stesso Berruti in posa da umarell, intento a guardare l’opera. Tutt’intorno, ci sono alcuni disegni, che confluiranno poi in un corto in slow motion di prossima realizzazione.
Il percorso espositivo procede con alcune sale dedicate al lavoro pittorico e al disegno. Ai disegni, soprattutto, è dedicata una piccola sala raccolta, in cui si osserva quello che è il primo movimento creativo dell’artista. Ispirandosi, come lui dichiara, a maestri del passato del calibro di Schiele – per le linee sintetiche e sinuose del disegno – e lo stesso Burri – per i materiali – Berruti prende le mosse da figure infantili poetiche e giocose, apparentemente innocue, ma che proprio nella loro innocenza serbano una grande potenzialità espressiva e narrativa.
Una sala è poi dedicata al lavoro Vocazione, di qualche anno fa, dove su una serie di tele grezze vediamo un bambino che si volta da ogni parte, come cercando di capire da dove provenga la voce da cui si sente chiamare. Come per il Samuele biblico, si tratta però di una voce interiore: Dio, o che si voglia, il destino, il talento, il daimon. Curiosamente, per come le tele sono esposte, anche noi, dentro quella sala, per guardare i lavori, dobbiamo compiere gli stessi gesti del bambino, muovendoci in tondo e cercando i riferimenti figurativi, con lo sguardo rivolto verso l’alto.

In un’altra sala una scultura/installazione di grandi dimensioni mostra alcune bambine sedute in cerchio, come a compiere un antico rito non si sa se religioso o pagano, o semplicemente naturale. Le bambine sono inginocchiate sulla terra, le braccia e i volti in pose ogni volta diverse, ad evocare vari modi possibili di meditare o pregare.
L’ultima sala è invece dedicata interamente a un’opera su grandi dimensioni, questa volta senza figure umane, che racconta, in una serie di tele esposte in cerchio, l’intero paesaggio della città di Alba, dove Berruti è nato e vive e dove è nata e vive la Ferrero. Sulle pareti intorno sono disegnate le montagne, sul fondo azzurro-verde chiaro caro al pittore, mentre dietro la vetrata, nel parco, scorgiamo un’altra scultura di grandi dimensioni, un bambino in ginocchio che guarda il cielo.
Prima di uno spazio dedicato ai libri e cataloghi dell’artista, un’ultima, ma imperdibile sala è dedicata infine ai cortometraggi. L’ultimo in ordine cronologico è prodotto in collaborazione con Open Arms, con musica di Samuel Romano dei Subsonica, ed è un vero gioiellino. Come gli altri video di Berruti è realizzato in slow motion, disegno dopo disegno, senza abusare di tecnologie avanzate e così esaltando la presa espressiva ed emotiva del risultato. Il tema sono gli effetti devastanti della guerra in Ucraina.
Vediamo un bambino perduto in una dimensione quasi metafisica, che si muove, come spesso accade nelle opere di Berruti, in una specie di vuoto astratto, che trascende la dimensione figurativa. Il bambino compie alcuni movimenti che subito non comprendiamo, forse un gioco o una danza, con il sottofondo musicale che scorre lento alle sue spalle. Alla fine compare la figura di una donna, che lo prende tra le sue braccia. Ma poi la musica si fa più veloce, le immagini si ripetono, qualche particolare viene aggiunto, e la storia narrata si delinea via via in tutta la sua tragicità. La ripetizione avviene per tre volte, in un crescendo drammatico insieme delicato per i toni ed emotivamente trascinante. L’ultima volta la storia è completamente leggibile, la musica più concitata e drammatica. Ci accorgiamo allora che il bambino è un superstite dei bombardamenti e si è nascosto in un sottoscala, o forse nel tunnel di una metropolitana, come davvero è accaduto in Ucraina. Si sveglia da un sonno agitato, esce e cerca tra le macerie di quella che fino a poco tempo prima era la sua casa, un piccolo giocattolo che gli appartiene. Curiosamente, si tratta di un coniglio rosa, forse come quello del romanzo di Judith Kerr del 1971. La lettura retrospettiva del corto non è consolatoria, perché ora sappiamo che quel bambino ha perduto ogni cosa. Soprattutto ha perduto quello che era stato fino a poco tempo prima il suo mondo, quello dorato di un’infanzia normale a cui troppo presto, a causa della guerra, non può più fare ritorno.
bellisssima la mostra di Berruti , consiglio di visitarla