Tintin Nina Disco non è un titolo qualunque: Tintin, Nina e Disco sono gli amati cani di Vivian Suter, delle cui zampe capita sovente che le impronte compaiano sulle tele, insieme all’acqua piovana, alle macchie di fango o ai graffi provocati da rami di alberi. Sono oltre 50 le opere, di grande dimensione e senza cornice, ora esposte al piano terra dello spazio milanese di Kaufmann Repetto in un turbinio felice di colori vivaci che ricordano lo spazio circostante la casa in cui Suter vive dagli anni ’80: una piantagione di caffè, sulle pendici di Panajachel in riva al lago Atitlán, in Guatemala.
Le cime degli alberi, i picchi vulcanici o le superfici delle acque incontaminate Suter le riversa sulla tela con un fare astratto e improvvisato respirando e incarnando ogni traccia naturale che la circonda: la foresta tropicale concorre attivamente nella genesi dell’opera. Ed è in essa che, attraverso l’allestimento delle tele, sovrapposte e sospese fluidamente e non gerarchicamente, ci immergiamo – perché proprio di immersione e di perdita è la sensazione – pacificamente fino a raggiungerne, sensibilmente, lo spirito e l’ecosistema.
Ed è proprio della natura che l’artista, dimostrando una forma di esistenza ecologicamente consapevole, testimonia con la sua opera la trasformazione della natura, il suo graduale decadimento e la sua dinamica rigenerazione al di là di una questione puramente pittorica o materica suggerisce una più intensa, e immensa, comprensione in termini di trionfo del tempo e del caso. Fu Suter stessa, qualche anno fa, in conversazione con Javier Payeras, ad affermare di cercare «di catturare il tempo, un po’ come trattenere il respiro», ed ecco è forse questo che proprio accade quando muovendo i propri passi in Tintin Nina Disco ci concediamo un momento di stupore verso l’inarrestabile e infinito della natura nella quale troviamo riparo: tratteniamo il respiro.
Dalla foresta tropicale, scendendo di un piano, ci si sposta nel villaggio di Tskaltubo, nella Georgia occidentale, dove Elene Chantladze fin da bambina ha scritto storie, tenuto diari e raccolto pietre. Ha smesso di dipingere sulle pietre quando alla morte del marito (perché in Georgia le pietre sono associate alla morte), ma ha continuato a impiegare supporti propri dell’ambiente che l’ha sempre circondata per creare corollari visivi per le favole che ancora contornano il suo immaginario: ritagli di carta, pezzi di cartone, pannelli di mobili, pagine di vecchi calendari tagliate irregolarmente, piatti di plastica usa e getta.
I colori sono per la maggior parte tenui, talvolta qualche pennellata rosso ciliegia o malva segna la tela; i materiali sono tradizionali, come il carboncino, e anticonvenzionali, come spruzzi di benzina, pennellate di mirtillo e succhi di bacche; i paesaggi sono naturalistici, a tratti impressionisti ma senza fronzoli; i personaggi sono folkloristici e onirici, talvolta quasi poeticamente surrealisti: tutto richiama l’immaginazione, quella dei bambini, permeata di senso di meraviglia e creatività in cui è facile immedesimarsi.
In concomitanza con la mostra a Milano, si è aperta ieri nella sede di New York (e simultaneamente anche nello spazio di Anton Kern) un’altra mostra dedicata all’artista georgiana con una selezione di opere – paesaggi, ritratti e nature morte – esemplificativi dei registri sensibili di creazione del segno e l’uso di una materialità non convenzionale propri di Chantladze: un’outsider che scruta miti, leggende, speranze e paure per re-immaginare il quotidiano che possa sempre trasformarsi.
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