Tra outfit sgargianti e agende gremite, tutta la città è in fermento, e la priorità è quella di non perdere nemmeno un minuto prezioso. Per questo di seguito troverete tre rapidissimi motivi per visitare assolutamente la mostra FuturoRemoto di Domingo Milella presso la Fondazione Giancarlo Ligabue, aperta fino al 27 aprile su prenotazione.
Punto primo: l’allestimento. Quante volte vi è capitato di entrare in un palazzo antico e riscoprirvi al centro di un’elegante grotta paleolitica? Esatto. Già solo per questo aspetto l’esposizione merita la vostra attenzione. Di fronte a un impegno così importante risulta chiaro come la collaborazione tra l’artista e Inti Ligabue, responsabile della Fondazione, sia la concretizzazione di un rapporto di lunga data, un bisogno molto sentito da parte di entrambi. Inevitabilmente questa componente di necessità arricchisce ampiamente l’esposizione, creando un parallelo tra l’urgenza di raccontarsi delle generazioni antiche e di quelle moderne. L’effetto al calar del sole è strabiliante: sarà impossibile non percepire un brivido lungo la schiena mentre si ritorna felicemente al proprio stato di natura.
Punto secondo: i soggetti. La ricerca di Milella si basa su ritratti di incisioni e pitture rupestri spesso inaccessibili al pubblico. Se tuttavia, da una parte, il suo lavoro costituisce una valorizzazione di questi siti e simboli, dall’altra egli restituisce al soggetto la libertà di esprimersi da sé. In questo senso le opere presenti in mostra agiscono come un’occasione di curatela da parte dell’artista stesso, una scatola nella scatola in cui, tramite l’azione della fotografia, ai lavori dei nostri predecessori paleolitici viene restituita una voce forte e chiara. Le raffigurazioni, poste al di fuori del loro contesto abituale (che sia lungo il percorso di una grotta o tra le pagine di un vecchio libro di antropologia), assumono un valore enorme non soltanto in virtù del loro punto di vista storico ma rispetto alla contemporaneità dei loro tratti. Ironicamente potremmo dire che i nostri predecessori, se non fossero vissuti più di 30.000 anni fa, potrebbero essere tutt’ora considerati il fiore all’occhiello di molte Biennali.
Punto terzo: la qualità del lavoro. Al di là di un’idea poetica dell’artista che, armato del suo fedele banco ottico, si immerge progressivamente verso il centro di una montagna buia, le fotografie che ci vengono restituite di cavalli senza peso e maternità animali si contraddistinguono per una pregevolissima fattura. Le pareti rocciose degli sfondi infatti, grazie a delle sofisticate tecniche di stampa, rimangono dotate della stessa tridimensionalità che si incontrerebbe dal vivo. I colori splendono, le incisioni gioiscono della propria profondità, e l’occhio inevitabilmente accarezza immagini che mantengono l’illusione dei gradi di umidità presenti nell’ambiente sotterraneo. Persino l’utilizzo del negativo in alcuni scatti, al posto di trasfigurare il significato della composizione ne concorre all’omaggio.
L’esibizione quindi, nella sua totalità, ci offre un’elegante chiave di lettura rispetto a uno dei più grandi misteri del nostro tempo. Un’ultima menzione: questa sera, 21 aprile, sarà ospitato un gruppo di esperti di musica paleolitica. I suoni della performance live verranno poi registrati e, in seguito, contribuiranno permanentemente all’immersività della mostra.
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