Installation view della mostra John Giorno: a labour of LOVE. Foto: Gianluca Di Ioia courtesy Triennale Milano
Sono tempi bui questi. Non servono veri proiettili, sirene o deflagrazioni. Basta ascoltare la parola guerra che risuona ovunque, ripetuta infinite volte, tra la gente, nelle piazze, sui giornali, tv, social. Dittatura, la bomba, i carri armati, un milione di soldati. Parole odiose, orribili. Sembra di essere tornati negli anni ‘50, con il pericolo rosso alle porte e l’opinione pubblica divisa, lacerata da chi vuole la pace con le armi e chi pretende la pace con la guerra in corso.
Eppure, incredibilmente, in mezzo a questo tsunami di notizie dolorose e militaresche, vomitate, urlate con la furia della propaganda e con un sottofondo di sirene anti-bombardamenti, quasi per caso, per magia direi, un piccolo miracolo.
Negli spazi del centro studi ricerca Cuore della Triennale di Milano è stata inaugurata una mostra silenziosa, delicata quanto ariosa: John Giorno: a labour of LOVE. Un passage evocativo e antologico, un viaggio a ritroso tra i sogni e i segni, le memorie e i frammenti dell’opera del grande poeta, attore, cantante, performer nato a New York nel 1936 e figura di raccordo di tanti artisti dell’avanguardia americana del secondo Novecento.
Una sorta di flashback della vita avventurosa, poliedrica, piena di luce e di libertà di questo artista underground, che ha predicato l’amore, la sperimentazione, il dolore e la gioia in ogni punto e direzione possibile. Bozzetti, poster, documenti di corrispondenze private, brochure di mostre ed eventi, prime edizioni dei suoi libri, dei sui Lp, filmati d’archivio e volantini originali.
Con la curatela di Nicola Ricciardi, direttore artistico di miart e di Eleonora Molignani, la mostra è stata allestita dallo studio Ex di Andrea Cassi e Michele Versaci e resa possibile dalla Giorno Poetry Systems, l’organizzazione no profit fondata dall’artista nel 1965 per supportare artisti, poeti e musicisti. «La vita è un mucchio di regali, alcuni sono orribili, ma non c’è mai un giorno in cui non ricevi niente».
Ispirata al tema dell’edizione Among Friends di miart 2025, l’esposizione ci riporta alla memoria di un tempo magnifico, di collaborazioni, ispirazioni comuni, del poeta newyorkese con figure del calibro di Robert Rauschenberg, Andy Warhol, William S. Burroughs, John Cage, Allen Ginsberg, Jasper Johns, Patti Smith. Amicizie che sovente si trasformano in altro, in amore, in creatività, in sperimentazioni pregne di forme, di stili, alla ricerca di nuovi mondi, vie da immaginare e da attraversare insieme.
«Life is a killer! You’ve got to burn to shine!»
La lingua dei suoi lavori più riconoscibili, The American Book of the Dead, Poems, Three Events (1964-1973) ha uno stile duro, ironico, sarcastico, semplice e potente, ossessivo e ripetitivo. Come la vita, la quotidianità spinta fino all’auto-ipnosi, al messaggio subliminale. Ma quello di Giorno non irretisce o obnubila, ma libera e divampa.
«Everyone is a complete disappointment! We all live in a world of bad karma!»
La sua voce, strumento potente e amplificato dalle sue espressioni facciali, dalle pause drammatiche, da suoni metallici e dalle note musicali (documentata da video e proiezioni presenti nella mostra) è il risultato di anni di stages, happening condivisi con Burroughs, Ginsberg, Patti Smith, Laurie Anderson. La forza instancabile e viva di tutta una generazione, quella dei Beat, ma anche di altre sollecitazioni e cultura pop, dei performing arts, del buddismo tibetano.
«Do it, with anyone, you want, as much, as you want, anytime, anyplace!»
A questo si aggiungono le machine reading al Ryerson Institute (1965), le sovrapposizioni verbali e le registrazioni vocali elettrificate dalle pionieristiche tecnologie dei Sight Sound System condivise con mostri sacri del calibro di Marcel Duchamp e John Cage all’Isaacs Gallery (1968), in cui il mix visivo, sonoro e poetico infrangeva ogni rigidità sensoriale e concettuale.
«The world is yours, and I am yours, and you are mine. Do what you want, be what you want, you are free, you are free».
La libertà della parola di Giorno poteva essere trascritta anche sui fogli svolazzanti, magari poi usati per altro, per la lista della spesa, per segnare un numero di telefono, magari per fare un disegno scacciapensieri. Come i dattiloscritti di Streetworks (1969), delle vere e proprie poesie volanti, raccolte su cartoncini colorati e distribuite tra i passanti increduli con pericolosissime incursioni dell’artista sui pattini a rotelle durante gli omonimi happening collettivi. La strada diventava così spazio-pista scenico e i passanti spettatori-birilli da scansare e da ammaliare con poesie-piroette rapide e sfuggenti.
O raccontata come una chiacchiera al telefono, magari con un amico lontano che non senti da tempo. Così l’installazione Dial-A-Poem (1968), la sua opera più famosa che la mostra ci regala sotto forma di corner, dedicato a un gesto ormai perduto: afferrare la cornetta di un telefono e comporre un numero per chiamare qualcuno. Qualcosa di antico, un tempo quotidiano, che ci costringeva a fermarci, a prenderci un momento per noi. Un’intuizione magica di Giorno, semplice quanto geniale, che permetteva a un pubblico vastissimo di ascoltare poesie registrate attraverso un numero telefonico diffuso ovunque (giornali, banner sui muri, volantini etc) con le voci di tanti amici, scrittori, poeti, intellettuali. Un’opera che non finiva mai, che poteva continuamente essere aggiornata, con altri nastri, altre poesie, usata per diffondere idee e suggestioni nuove e che sotto varie forme ha continuato a funzionare fino al 2000.
Ma Giorno sapeva addentrarsi anche nel mondo della pubblicità, dell’immagine mai neutra nelle sue forme e potente più dei suoi stessi contenuti, come mostrava in quegli anni la Pop Art del suo amico Warhol. Un linguaggio apparentemente semplice e spontaneo eppure calibrato nei minimi termini nel colore, nella forma ma soprattutto nell’intenzione.
«Hit my nose with the stem of a rose. Cherry blossoms are razor blades. Lavender laughing lustful». Così le appariscenti tele di Perfect Flowers (2017-2023), posizionate sullo Scalone d’Onore della Triennale, incorniciano alcune celebri frasi del poeta in un gioco cromatico ambivalente, di sfondo e testo in grado di suscitare sensazioni a metà tra la cartellonistica stradale e impressivi quadri di parole Dada.
Insomma un mondo complesso e cangiante, un flusso permanente, che prosegue ancora oggi. Tags, frammenti, graffiti e residui di un’artista consapevole della necessità di annodare ogni forma d’arte con un’unica esperienza umana, quotidiana quanto visionaria.
Dunque una scrittura mixed, hyperreal, hypertextual.
Qualcosa di analogico nelle forme ma già potenzialmente digitale, stereophonic ma già surround nei concetti e nelle applicazioni. Consapevole Giorno che le parole, i colori, le immagini e i suoni avrebbero ridotto sempre di più le distanze tra sé, come tra gli uomini e le donne di quell’epoca e della nostra. Contro tutti gli odi, contro tutte le guerre.
A settembre il celebre artista contemporaneo russo Nikas Safronov festeggerà il 90° anniversario di Sophia Loren, leggendaria attrice italiana e…
La The Address Gallery di Brescia presenta in mostra nuove e intriganti opere dell’artista newyorkese di origine francese Edouard Nardon
Gaggenau presenta un nuovo progetto itinerante che mette in dialogo arte e design per riflettere sulla trasformazione della materia: si…
L’appuntamento mensile dedicato alle mostre e ai progetti espositivi più interessanti di prossima apertura, in tutta Italia: ecco la nostra…
Dalla performance alla pellicola, l’artista Desiderio Sanzi approda al mondo del cinema con un film denso di simbolismo e suggestioni…
Tra le sale del Museo Madre di Napoli, la prima tappa di un ampio progetto espositivo che vuole tenere traccia…