Leonor Fini, Femme assise sur un homme nu, 1942, Oil on canvas. Private Collection, courtesy Leonor Fini Estate, Paris
«Sono una pittrice. Quando mi chiedono come faccia, rispondo: “Io sono”». Leonor Fini, artista ipnotica, dal fascino ambiguo e inafferrabile, ha incarnato la libertà creativa e intellettuale, lontana dalle convenzioni sociali del Novecento. “Io sono”: con queste parole lei stessa descrive, senza limitarla, la sua vita non conforme, libera, vissuta senza compromessi. Pittrice capace di grande intensità, anche scrittrice, scenografa, costumista e performer, mai semplicemente “musa”, sempre protagonista.
Non solo l’arte, ma le attitudini e le visioni ribelli dell’artista sono raccontate in cento opere, tra pitture e oggetti d’archivio, nella grande mostra Io Sono LEONOR FINI a Palazzo Reale a Milano, fino al 22 giugno 2025. La mostra, curata da Tere Arcq e Carlos Martín, è tra le retrospettive più complete mai dedicate all’artista italo-argentina, figura dirompente e anticonvenzionale del XX secolo e rimasta a lungo nell’ombra. L’esposizione è strutturata in nove sezioni tematiche che indagano ognuna un tema ricorrente nella vita dell’artista: il macabro, il minaccioso, il rapporto con la figura maschile, la sessualità e la famiglia, la rappresentazione del corpo e identità, l’interesse per gli aspetti rituali, magici e i fenomeni di metamorfosi e ibridazione archetipici.
Leonor Fini nasce nel 1907 a Buenos Aires. Sua madre scappa dal marito violento con la figlia ancora molto piccola, travestendola da maschio, muovendo verso Trieste, città mitteleuropea tra le più artisticamente e culturalmente stimolanti del secolo. Il trauma della separazione accende in Leonor lo spirito di rivolta continua contro i modelli patriarcali, le questioni di genere e d’identità e le istanze psicologiche che porterà avanti per tutta la vita. E, insieme, il suo interesse per il travestimento, la trasformazione in altro da sé, il gusto per il camuffamento e la maschera. «Mettersi in costume», scrive Fini, «è un atto di creatività, l’esteriorizzazione dell’eccesso delle fantasie che ci si porta dentro, allo stato grezzo». L’unica storica dell’arte femminista da cui si lasciò intervistare, Whitney Chadwick, la descrisse come «alta e sorprendente, con capelli corvini e occhi penetranti. Leonor possedeva la strana combinazione di grazia felina e potere da amazzone». È un trauma a far scoccare la scintilla dell’arte: da giovanissima Leonor è costretta a rimanere cieca, bendata e al buio per due anni, a causa di un’infezione. Dopo questo episodio arriva l’epifania e l’immersione nella pittura: «I miei occhi gridavano vendetta». Il suo tratto convinto, surrealista e realista insieme, è infatti molto sensibile alla sensazione tattile, ai tratti dell’incarnato, dei nervi e dei tessuti, nei tessuti e nelle texture.
Leonor Fini inizia a dipingere a Parigi, dove dal 1913 frequenta il gruppo dei Surrealisti e intellettuali come Max Ernst, Dalì e Andrè Breton, da cui assorbe lo spirito e stile pittorico. Qui inizia a costruire la sua personale grammatica, non incasellabile in correnti specifiche, che si rivolge alla figura della Donna, della femminilità nei suoi enigmi e misteri, quasi magica e inquietante, declinandosi in un messaggio senza tempo di liberazione e di affermazione. Donna magnetica e turbata, si affianca a grandi intellettuali e artisti come Alberto Moravia ed Elsa Morante, James Joyce e Rainer Maria Rilke, Giorgio de Chirico e Jean Cocteau, con cui condivide il gusto per l’arte visionaria, la rappresentazione dei sogni e il simbolismo, che la sosterranno nel corso della sua carriera. Leonor assorbe la lezione dei maestri del passato sulla figura umana e sul colore, come Piero della Francesca, Michelangelo e i pittori manieristi. A Milano parteciperà alla Seconda Mostra del Novecento Italiano a fianco di Achille Funi, Giorgio de Chirico e Mario Sironi, dove colloca una prima indagine pittorica intorno alla Metafisica e alla Nuova Oggettività. Leonor definì Milano come luogo di massima emancipazione, dove lasciarsi vivere in totale libertà, cosa al tempo non scontata.
Da adolescente, visita l’obitorio di Trieste, dove il custode le mostra il corpo inerte di un giovane, “qualcosa di molto bello”, il primo corpo maschile nudo che vede. Questo è un momento chiave per il suo immaginario, una suggestione che plasmerà il suo immaginario intorno alla figura maschile, che descrive come un essere improduttivo, inerme, resistente al suo corpo e alla nudità. Un esempio nel quadro L’Alcôve del 1941: «L’uomo nel mio dipinto dorme perché rifiuta il ruolo di animus del sociale e del costruito, e ha rifiutato la responsabilità di lavorare nella società verso questi fini… ».
«Tutta la mia pittura è un’autobiografia incantatoria di affermazione», scrive negli anni Settanta: sin dalla prima sala della mostra, titolata Scene Primordiali per come intese in psicoanalisi, è la stessa artista a confessarci un atteggiamento che vuole far emergere la quintessenza del suo credo concettuale e poetico e le figure ossessive nella sua mente. La sfinge è la creatura che sintetizza, nella sua opera, natura e cultura, non ancora minaccia e non ancora sicurezza, simbolo di mutazione della coscienza matura che le donne erano costrette a nascondere.
Ispirata dalla cultura egizia e dalle rappresentazioni dell’Antica Grecia, la sua sfinge è un mostro femminile con la testa e il seno di una donna, il corpo di un leone e le ali di un’aquila. Ne La Bergère des Sphinx del 1941, Leonor Fini si rappresenta come la pastora delle sfingi, per metà donne e per metà leonesse, circondate dalle ossa delle loro vittime e da fiori recisi e gusci d’uovo, allusivi dell’eterno rinnovarsi della natura. Altre figure allegoriche reiterate nelle tele sono le cariatidi o le maschere note come panduri, che Fini ammirava nella scultura pubblica di Trieste e Parigi, oltre a un multiforme universo femminile di dee, streghe e alchimiste impegnate in rituali e cerimonie misteriose o che stanno subendo metamorfosi ovidiane a metà strada tra mondi paralleli. Tra “profumo di morte” e slancio vitale: con il dipinto Le Bout du Monde, il confine del mondo, del 1948, opera cardine della mostra, l’artista si ritrae immersa fino al busto, come una sopravvissuta decadente, nelle acque oscure di una pozza apocalittica, circondata da teschi e globi oculari galleggianti. L’opera, nel percorso espositivo, introduce ai temi del minaccioso, oscuro e macabro, la pulsione tra angelico e demoniaco che connota tutta la vita dell’artista.
Leonor Fini difese sempre una natura femminile intrinsecamente fluida e libera, rapporti sessuali e personali volutamente non definiti, in cui amicizia, fratellanza, sorellanza, dipendenza e indipendenza sessuale si mescolano tra loro. Le molte suggestioni legate a relazioni omosessuali (plasmate anche grazie alla lettura di Freud e Jung), lesbiche, scene di voyeurismo o di modelli complessi di famiglia sono una costante nel suo lavoro. Il letto è inteso come spazio sociale, un palcoscenico teatrale di umori dove mettere in scena il sé e le relazioni. Sopra di questo, giacciono corpi virili che l’artista dipinge invertendo i valori maschili e femminili ancorati al modello tradizionale della storia dell’arte e della morale sociale del tempo. Lei stessa, presente o assente nella rappresentazione, si propone non come oggetto di desiderio, ma come soggetto desiderante, e assurge l’androgino come l’ideale di uomo, all’opposto di qualunque performance di mascolinità. Tutto il suo universo matriarcale è votato all’esplorazione di un tempo pre-patriarcale, in cui la donna era lo spirito guida al centro di un universo panteistico in grado di controllare i cicli della natura, della vita e della morte.
La mostra a Palazzo Reale spazia tra disegni, fotografie, costumi e libri, fino a oggetti d’archivio frutto delle collaborazioni di Fini con la moda, la letteratura e il teatro, ponte tra cultura alta e popolare. Nelle ultime sale sono esposti i costumi disegnati da Leonor provenienti dall’archivio Storico Artistico del Teatro alla Scala e una selezione di disegni per costumi, mobili e altri elementi scenografici teatrali, operistici e di balletto. Leonor lascia il segno anche nel mondo del cinema: collabora con Federico Fellini alla realizzazione di costumi per una scena di Otto e Mezzo del 1963 e stringe rapporti intellettuali e sinceri con Anna Magnani, Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti. Al caffè Les Deux Magots di Parigi, Christian Dior le proporrà di esporre nella sua Galerie Jacques Bonjean, e sarà lui a presentarle Elsa Schiaparelli, già celebre per il suo stile all’avanguardia, che la vestirà e riceverà in dono il celebre profumo Shocking. Yves Saint Laurent, pur non collaborando direttamente con Fini, trova in lei ispirazione per le sue creazioni ribelli ed eleganti.
Le favole meravigliose, colte e inquietanti di Leonor ci restituiscono una visione dell’identità femminile nuova e anticonformista, un’artista poliedrica e dirompete che, tra Trieste, Parigi e Milano, attraverserà con coraggio le turbolenze del Novecento, reinterpretandone gli stereotipi e gli archetipi. Intollerante alle norme culturali e sociali, il messaggio visionario di Leonor Fini è capace di parlare al nostro secolo e alle nuove generazioni in modo profondamente contemporaneo, tracciando narrazioni che non temono l’incontro con l’inconscio, la morte e la pulsione di vita, nella sua carnale sensualità e poesia. Racconti che, come tutte le favole, si plasmano come riflessi della mutevolezza della nostra personale interpretazione: «Sono solita dire che dipingo quadri che vorrei vedere e che non esistono. Ma la verità è che i percorsi della mia pittura sono sconosciuti a me come a chi li contempla. La mia intuizione può essere corretta, ma a volte sospetto anche il contrario. In definitiva, non è affar mio».
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