Giunta al suo 20mo anniversario (qui la nostra intervista alla direttrice, Barbara Boninsegna) il 40mo del più ampio contesto di Drodesera, Centrale Fies allunga la mano fino ad accarezzare il traguardo di quella tensione che fin dall’inizio è stata il motore e la ragione della sua stessa natura: la fusione, che allo stesso tempo è diluizione, di pratiche e forme. In primo luogo il format XL, che abbatte i limiti temporali a cui la Centrale ci ha abituati: il campo stretto della perla estiva si espande per intero su tutto l’arco dell’anno, cancella riferimenti temporali, ora lasciati solamente ai colori di una sempre eccezionale location.
E all’interno o, oramai, insieme al format, “Storia notturna”, curata da Simone Frangi e Denis Isaia, in mostra dal 17 luglio all’8 agosto, fornisce l’esempio chiaro di quello che i passati festival hanno voluto suggerire. Diversità non più assemblata ma finalmente fusa, armonica, indistinguibile. Il nome si rifà al libro in cui Carlo Ginzburg prova a dare coerenza e, insieme, dignità e parvenza di fede, alle pratiche che dopo il pagano sono state generalmente riunite sotto i nomi di “stregoneria” e di “sabba”. Ne fuoriesce un mondo fatto di avventure estatiche al seguito di indefinibili presenze, comunione onirica, metamorfosi, animali, alchimia, solitudine, incomprensione. Da qui la difficoltà nel definire “Storia notturna”, quella di Centrale Fies. Una mostra e al tempo stesso una performance, qualcosa che, ancor prima di essere visto, ha già cambiato forma. I sette artisti chiamati ad allestirla/performarla, direttamente o inconsapevolmente legati allo scritto di Ginzburg, si avvalgono delle presenze per tangere in un solo colpo arte tessile, scultura e performance in un unicum di forma e azione.
Le sculture-oggetto di Chiara Camoni vengono suonate per riprodurre in suoni lo spirito alchemico che sembra averle create. Con Moving Landscape, Darius Dolatyari – Dolatdoust riesce ad amalgamare fino all’allucinazione, tramite vestizioni e coreografie all’unisono con il primitivismo dei tessuti che fanno da scenario, spire variopinte e culturali, di una cultura che, in fondo, come nelle migliori storie, è individuale e quindi diversa. L’opera di Francesco Fonassi, of Work, commissionata da Museo Burel per un ciclo di mostre curate da Daniela Zangrando nel 2019, porta a Fies l’«Om Selvarec», l’uomo selvaggio: una cascata di lamenti per una natura solitaria che nei suoi spigoli nasconde le lacerazioni di un sentimento umano che va al di là di questa terra. Luca Frei, con 38074 (CAP del Comune di Dro, dove in queste date si trova l’opera che, appunto, suole cambiare nome nei propri spostamenti), stende a terra dei bastoni anonimi: nella loro passività dorme la languidezza dietro cui si nasconde una resa molto più che anagrafica o formale.
Raffaella Naldi Rossano, che porta dalla galleria Arcade le opere di I confess, e Mercedes Azpilicueta, con scultura e oggettistica (A liquid confession part II, Cancer Buoy, Femminello Buoy I-IV, Transition II) riprendono il senso sospeso tra alchimia e dinamiche di genere, rimandando lo spettatore alle figure e ai giochi di Remedios Varo, “la strega”, la chiamava Breton.
Le opere di Anna Perach, Alkonost e Mother of Egg, prendono nelle fitte trame del filato tufting tutti i colori dell’universo umano e del sabba artistico ospitato quest’anno da Centrale Fies: la fusione e dissolvenza estatica tra plastico e performativo, tra oggetto e azione, di forme, di generi, in una sintesi perfetta di vita tra questa e l’altra parte.
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