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«Una volta ero integrata ora sono disintegrata». Diaspora e memoria nella fotografia di Silvia Rosi
Fotografia
Il paesaggio come elemento di raccordo tra il passato e il presente in una possibile declinazione della narrativa della diaspora. Per Silvia Rosi (Scandiano, Reggio Emilia 1992, vive e lavora tra Italia, Togo e Londra) si tratta di entrare in quel territorio familiare tra collina e pianura nella campagna dove è nata e cresciuta. Un orizzonte «scomposto» in cui ad emergere è la presenza fortissima della natura stessa avvolta com’è in un verde intenso di rinascita. Qui l’artista si muove, cammina lentamente intraprendendo un viaggio metaforico nella propria interiorità. Per la personale Disintegrata alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia (fino al 28 luglio) – nell’ambito dell’XIX edizione del festival Fotografia Europea dal titolo La natura ama nascondersi – Silvia Rosi parte proprio dalla visualizzazione di quel paesaggio da cui ha rimosso gli elementi della soggettività, per realizzare le opere video e fotografiche della prima sala della mostra che ha concepito appositamente per la Collezione Maramotti. «Non ci sono edifici; è un paesaggio della campagna emiliana che chiunque viva in quella zona riconosce. C’è questa riconoscibilità, quindi, ma non vi sono elementi specifici: solo campagna, erba, percorsi collinari» – spiega l’artista – «L’idea è quella di camminare nel paesaggio, esplorandolo ma anche di soffermarsi e occupare quello spazio. Mia madre è sdraiata sull’erba, poi ci sono io nella sua stessa posizione e con lo stesso abito.
Nella sala successiva compio quasi la stessa azione, ma partendo dall’album di famiglia rimuovo il paesaggio e mi concentro sulla soggettività dell’individuo anche utilizzando l’esperienza della foto di studio che fa parte del mio album di famiglia più legato al Togo». Il confronto con le proprie origini è centrale nella ricerca di Rosi a partire dal suo soggiorno a Londra, dove studia al London College of Communication laureandosi in Fotografia. Un interesse, quello per il linguaggio fotografico, che aveva manifestato in precedenza frequentando a Bologna, presso Spazio Labo‘, un corso per acquisire le basi tecniche e teoriche. Qualche anno dopo, quando si trovava in Inghilterra, ha iniziato a focalizzarsi sul tema fotografia/diaspora: «forse perché ero lontana dalla mia famiglia e dal mio paese. Tutte le volte che rientravo in Italia c’era un momento spontaneo di ricerca e osservazione all’interno degli album di famiglia. Credo che sia stata proprio la distanza a portarmi a guardare le immagini d’archivio in cui i miei diversi familiari si rappresentavano in Italia». I genitori dell’artista hanno vissuto in prima persona l’esperienza della diaspora quando, alla fine degli anni Ottanta, decisero di andar via da Lomé, capitale del Togo, alla ricerca di migliori opportunità di vita. Il loro progetto originario era di trasferirsi in Francia, ma per problemi legati alle politiche dell’immigrazione rimasero qui. «In quel periodo non c’era ancora una regolamentazione sui flussi migratori. Solo successivamente mia madre e mio padre sono riusciti a rimanere a vivere in questo paese, grazie alla Legge Martelli che fu la sanatoria degli anni ’90 che permise a molti immigrati di rimanere in Italia.»
Il titolo della mostra Disintegrata rimanda ad una conversazione tra l’artista e sua madre in cui la donna afferma: «una volta ero integrata ora sono disintegrata». «A partire da questa frase è iniziata una mia riflessione sull’esperienza della diaspora in una chiave di viaggio all’interno di se stessi e del cambiamento che ciò porta: la vita da stranieri in un altro paese. Il titolo si riferisce anche alla disposizione delle opere, soprattutto sulle pareti della seconda sala, più connotata da ritratti formali e alla loro frammentarietà. In un certo senso sono quasi lavori non finiti in cui c’è sempre quest’idea di un’immagine ancora in produzione, ulteriore metafora della narrazione della diaspora come qualcosa in divenire che viene aggiunta alla narrazione». Nelle pose che sollecitano la memoria dei tradizionali studi fotografici dell’Africa Occidentale; tra l’altro proprio alla Collezione Maramotti, nel 2010, fu ospitata la mostra Malick Sidibé. La vie en rose, curata da Laura Serani e Laura Incardona, in cui era stato ricostruito il celebre Studio Malick con alcuni oggetti e l’attrezzatura fotografica di Malick Sidibé provenienti da Bamako. In quell’occasione il grande fotografo maliano realizzò anche moltissimi ritratti dei visitatori – c’è anche la citazione del processo analogico con il riferimento alle strisce di prova che si fanno in fase di stampa e al bollo rosso con cui l’artista contrassegna i negativi da stampare.
Le ultime due sale, infine, sono frutto di un lavoro che ha visto il coinvolgimento dei ricercatori Mistura Allison, Theophilus Imani e Ifeoma Nneka Emelurumonye che hanno raccolto centinaia di fotografie vernacolari – esposte in una scatola trasparente – che raccontano la quotidianità ma anche l’eccezionalità di eventi come un viaggio, una festa, una celebrazione delle moltissime famiglie originarie di vari paesi africani, tra cui gli Owusu, la famiglia Ameganvi e la famiglia Keita. Immagini assurte a memoria collettiva, così come l’opera video – Disintegrata nel Paesaggio (2024) – incentrata sulle lettere inviate dal Togo in Italia, lette dalle stesse persone che le ricevettero negli anni ’80 e ’90. «La lettera come spazio di memoria, esercizio di idealizzazione del quotidiano, restituzione di affetti». Un sapore nostalgico attraversa l’intera esposizione. «Molti artisti della mia generazione sono ispirati dalla fotografia di studio dell’Africa Occidentale, un qualcosa su cui anch’io mi interrogo. Penso che questo desiderio di andare a vedere quel tipo di fotografia sia anche legato a come le persone nere siano rappresentate in una posizione di dignità, fotografate in studio da fotografi africani. C’è un po’ uno shift da quella fotografia vittoriana, colonialista alla presa in mano della fotografia stessa come strumento da parte di fotografi africani con l’idea di potersi ritrarre in posa come persone eleganti e dignitose. Una narrazione che si discosta da quella semplicistica della diaspora che abbiamo in Italia».