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Una volta attraversata dal brulicante lavoro di operai e macchine, l’enorme distesa occupata dell’Ex Italsider di Bagnoli è immersa in un silenzio che dura da decenni che potrebbero anche essere ere geologiche. La sensazione di sospensione si è ormai cristallizzata, sovrascrivendo il paesaggio con una grammatica percettiva tanto indelebile quanto surreale, sfuggente. Più Zona di Tarkovskij che Deserto di Buzzati, non solo per via degli scheletri industriali cyberpunk, l’area interdetta all’accesso e oggetto di decine di progetti internazionali di riqualificazione comprende 250 ettari di territorio costiero, una fascia connettiva – prima elastica e poi irrigidita – tra la città di Napoli e la rete metropolitana flegrea. Oggi la spianata appare all’orizzonte come una concavità ricavata nel corpo pulsante di una delle metropoli più affollate d’Europa, «Un tessuto organico dislocato dalla sua sede a causa di qualche malformazione», citando la definizione di distopia nella sua accezione medica e rendendo, attraverso la viscerale sincerità biologica, la sensazione della contraddizione, dell’erroneità, l’impressione di qualcosa che non è andato per il verso giusto. Eppure, nella persistenza di poche, enormi e verticali strutture dismesse, nell’emaciato disegno delle corsie per i muletti e i rimorchi, che doveva essere fitto e conduceva fino ai moli per le navi cargo ma del quale si intravedono solo sparsi segmenti non ancora sepolti dalla polvere, in questa morfologia antropica e, in qualche modo, aliena, emergono isolati brandelli del sogno originario, della fiducia nell’espansione verso un’ideale magnifico, solido, inscalfibile: l’utopia.
Sono innumerevoli le storie manifesto che compongono il denso racconto di “Utopia Distopia: il mito del progresso partendo dal Sud”, mostra curata da Kathryn Weir e visitabile al secondo piano del Museo Madre di Napoli. Le vicende di Bagnoli e dell’ex stabilimento siderurgico sono probabilmente quelle più evidenti, tuttora risaltano nelle pagine di cronaca e, nell’ambito dell’esposizione, scandiscono un paragrafo della sezione “Spazio industriale”, raccontate dalle potenti immagini di Mimmo Jodice e Raffaela Mariniello. 55 gli artisti italiani – di cui 33 campani – e internazionali che, con la testimonianza delle loro opere, con la persistenza delle loro azioni, «Hanno espresso la dicotomia tra le utopie degli anni ‘60 e le distopie di oggi», nelle parole di Angela Tecce, presidente della Fondazione Donnaregina per le Arti Contemporanee. Due spinte interpretate come forze aggregatrici e dissociative degli eventi, coinvolte in un processo animato da scivolamenti e forzature, in fervente attività al di sotto della coscienza della nostra contemporaneità e al quale Weir ha conferito un taglio geografico preciso ma dalla potenza emblematica, più che antagonista.
L’Europa meridionale, il sud Italia, la Campania, l’area metropolitana di Napoli e, per estensione, il meridione del mondo, interpretato come paradigma espanso, simbioticamente locale e concettuale, metodo di disvelamento georeferenziato, quindi identificabile, di quella narrazione incentrata sull’epica dello sviluppo forzato, intensivo, onnivoro, egemonico, che non è tramontato su un lungo periodo ma è esploso nel giro di poche, impreparate generazioni, aprendo la strada al linguaggio del conflitto, dell’incomprensione.
«Quanto possiamo fidarci della nostra storia una volta che, di quelle promesse di prosperità, abbiamo visto le ricadute ambientali e sociali?», chiede Weir, intervenuta durante la presentazione della mostra, insieme ad Angela Tecce, Patrizia Boldoni, Consigliere del Presidente della Regione Campania per cultura e beni culturali, Rosanna Romano, Direttore Generale per le politiche culturali e il turismo della Regione, e Onofrio Cuttaia, Direttore Generale Creatività Contemporanea del MIC – Ministero della Cultura.
Diradato il fumo e spente le fiamme, di quel “mito del progresso” se ne rivelano le macerie sparse caoticamente sul territorio. Ed è proprio lo spazio il fulcro tematico e allestitivo della mostra che, variando sul suffisso linguistico comune tra utopia e distopia, cioè il topos, il luogo che diventa fatto comune, è ripartita in sei sezioni: “Spazio Urbano”, “Spazio Rurale”, “Spazio Periferico”, “Spazio Industriale”, “Spazio Extraterritoriale”, “Spazio del Corpo”.
Concepita in relazione alla collezione del Madre, che così riparte dopo il lungo e difficile periodo di lockdown, durante il quale il museo è stato adibito anche a centro vaccinale, la mostra presenta le opere di Francesco Arena, Betty Bee, Joseph Beuys, Monica Biancardi, Bianco-Valente, Antonio Biasiucci, Tomaso Binga, Eduardo Castaldo, Tonino Casula, Patty Chang e David Kelley, Danilo Correale, Riccardo Dalisi, Alexandre de Cunha, Giulio Delvè, Maria Adele Del Vecchio, Romina De Novellis, Baldo Diodato, Salvatore Emblema, Bruna Esposito, Cherubino Gambardella, Eugenio Giliberti, Didi Gnocchi, Goldschmied & Chiari, Gruppo XX, John DiLeva Halpern, Rebecca Horn, Michele Iodice, Mimmo Jodice, Kiluanji Kia Henda, Desirèe Klain e Matteo Antonelli, Maria Lai, Ibrahim Mahama, Domenico Antonio Mancini, Lina Mangiacapra, Umberto Manzo, Raffaela Mariniello, Margherita Moscardini, Raffaela Naldi Rossano, Temitayo Ogunbiyi, Catherine Opie, Giulio Paolini, Athena Papadopoulos, Perino & Vele, Felice Pignataro, Giulia Piscitelli, Paolo Puddu, Annalisa Ramondino, Justin Randolph Thompson, Francesco Rosi, Mathilde Rosier, Rosy Rox, Melita Rotondo, Roxy in the Box, Franco Silvestro, Eugenio Tibaldi.
«La mostra è stata frutto di un lungo lavoro di ricerca e di confronto», ha spiegato Weir introducendo il percorso espositivo che si dipana in maniera ordinata e, in diversi episodi, anche suggestiva, lungo le sale al secondo piano del museo di via Settembrini. A introdurre la mostra e la prima sezione, “Spazio Urbano”, un ritaglio “cronachistico” di Le mani sulla città, film di Francesco Rosi diventato icona della speculazione edilizia napoletana. La chiusura è affidata alle poesie di Anna Maria Ortese e Pier Paolo Pasolini, con un estratto da “La Terra di Lavoro”, le cui parole spiccano sulle pareti bianche.
Tra questi due estremi che riescono a unire l’esposizione in un coerente moto circolare, si estende la lunga teorie delle opere, allestite in una prossimità, di volta in volta, visiva, materica o concettuale, spesso immediata e d’impatto. Come nel caso, nella sezione “Spazio rurale”, del dialogo tra il video di documentazione di Legarsi alla Montagna, la performance di Maria Lai nel paese sardo di Ulassai, le fotografie dedicate alle ritualità contadine della serie Dove non è mai sera di Antonio Biasiucci, e l’installazione di sedie di legno, pietre e campanelli di Bruna Esposito.
Nonostante l’impostazione curatoriale più che documentaria, la mostra dà l’occasione di riscoprire alcuni episodi significativi ma rimasti sul margine. Come le rivendicazioni del Gruppo XX, collettivo composto da Rosa Panaro, Mathelda Balatresi, Antonietta Casiello e Mimma Sardella, considerato tra gli epigoni dell’arte performativa a Napoli tra gli anni ’60 e i ‘70. Nella sala dello “Spazio del corpo”, le testimonianze di quella temperie femminista si aprono a un confronto con le generazioni più recenti, rappresentate dalle opere e dalle performance di Rosy Rox, Romina De Novellis, Betty Bee e Roxy in The Box. Occasione di riscoperta anche attraversando lo “Spazio periferico” dove, tra gli altri, è particolarmente significativo, sulla scia dell’accezione relazionale della pratica artistica, il confronto “topografico” tra il Rione Traiano, contesto degli interventi di Riccardo Dalisi, e i carnevali del gruppo Gridas di Felice Pignataro tra Secondigliano e Scampia.
Scelto anche come immagine guida della mostra, il grande riquadro bianco di un cartellone pubblicitario vuoto, ritratto da Mimmo Jodice su via Marina, è uno dei momenti di chiusura del percorso. Era il 1980, Napoli fu scossa dalla tragedia del terremoto e per il mondo occidentale era l’inizio di una decade durante la quale le promesse precedentemente preparate dovevano essere consumate. Su quella pagina bianca le utopie e le distopie avrebbero trovato lo spazio adatto per esprimersi e noi, oggi, la vediamo finalmente scritta, compiuta, esaurita in tutte le sue possibilità ma non per questo osserviamo senza aspettativa, senza attesa.