Inaugurata al Museo Madre di Napoli e visitabile fino al 30 settembre 2024, Vai, vai, Saudade a cura di Cristiano Raimondi è una mostra collettiva che, strutturata attraverso 194 opere, racconta l’arte brasiliana dal secondo dopoguerra a oggi. Forse il rischio contenuto nel concepire e nell’allestire una mostra del genere riguarda innanzitutto la (im)possibilità di provare a contenere l’incontenibile, nel tentativo di circoscrivere la conoscenza in una struttura razionalmente ordinata, al fine di renderla gestibile secondo il cogito cartesiano.
D’altronde, si tratta di insidie riconducibili a un’attitudine filo-modernista, espressa nella «Ragione cartografica» (Farinelli, 2009) e nella “ragione enciclopedica” (o Aufklärung), che fa della prassi tassonomica uno strumento di organizzazione del sapere fondamentale su cui si sono erette quelle meta-narrazioni lyotardiane che, imponendo una visione centralizzata e universalizzante del mondo, hanno finito per delegittimare le voci e i «Dialetti» delle conoscenze periferiche (Vattimo, 1989).
Viste queste premesse, è opportuno domandarsi come il curatore abbia articolato e messo a punto il dispositivo curatoriale al fine di eludere tali criticità. Insomma, in che modo affrontare queste sfide?
Se i processi di musealizzazione corrono a priori questi rischi in ragione della propria costituzione pedagogico-spettacolare, è altrettanto vero che nel panorama contemporaneo sono numerosi gli espedienti e le strategie adottate per contenerli o aggirarli. Nel caso di Vai, vai, Saudade, Raimondi sembra aver optato per un approccio che, anziché rifarsi alla struttura di un «Romanzo» (come suggerito nel comunicato stampa) e quindi alla linearità monolitica tipica di un libro con accesso gerarchicamente indicato, tende piuttosto a sovvertire l’ordine cronologico della narrazione per trasformarla in un territorio esperienziale.
Si potrebbe dire quindi che si tratta di una narrazione ipertestuale – più che testuale – che procede verso una mappatura il cui senso contenutistico si costruisce non tanto attraverso l’interpretazione di uno spazio circoscritto con una struttura rigida e cronologica, quanto piuttosto mediante un approccio dialogico e lirico che invita a navigare in un territorio secondo percorsi non predefiniti. In tal modo, Vai, vai, Saudade mette in moto un tessuto di consonanze tra epoche, movimenti e culture di uno stato-continente, all’interno del quale il visitatore è libero di esplorare i vari link proposti.
Il percorso espositivo si apre con la rappresentazione “sviluppista” dell’uomo-costruttore di civiltà contenuta in Livro di Arquitetura (1959) di Lygia Pape, contrapposta a Via Sacra na Amazonia (1990) di Hélio Melo. Quest’ultima, costituita da una serie di disegni in cui Cristo è rappresentato nelle vesti di un seringueiro (un estrattore di lattice considerato alla stregua di un prigioniero nel sistema di produzione), trasforma in carne il verbo della teologia della liberazione, sovrapponendola alla realtà quotidiana dello sfruttamento delle popolazioni indigene.
In seguito, un’ulteriore dialogo degno di interesse si instaura tra le opere di due pittrici di generazioni diverse: Eleonore Koch e Ana Prata. Sebbene entrambe lavorino sul tema della natura morta, nel primo caso questo viene declinato nell’astrazione e nell’iterazione di oggetti d’uso quotidiano – che concepisce in stretto dialogo con la fotografia – al fine di conservarne un senso di familiarità; nel secondo caso si assiste, piuttosto, a una narrazione lirica – che rimanda al collage – dai tratti tutt’altro che descrittivi. In entrambi i casi la presenza umana è suggerita unicamente attraverso gli oggetti.
A offrire invece una ricezione multisensoriale è la quinta sala: le opere pittoriche degli anni Trenta di Heitor dos Prazeres, che ritraggono scene di vita popolare riflettendo una realtà storica carica di contraddizioni e disparità sociali in cui sopravvivono, ancora, i valori colonialisti di matrice europea, sono accompagnate dal ritmo della Samba. Non è un caso né una scelta stereotipata, dato che l’artista accede nell’ambiente culturale carioca inizialmente grazie alla sua produzione musicale. Da una delle sue composizioni, intitolata appunto Vai, vai, Saudade, prende il nome l’intera mostra.
La sesta sala è invece coabitata da opere che, lasciando emergere le ferite lasciate dal trauma della colonizzazione e delle attuali questioni razziali, spaziano dalle ricerche sul barocco brasiliano, la ceramica portoghese – quest’ultima nella sua valenza simbolico-politica (Adriana Varejão) – fino ad arrivare alle cartografie marittime – che come si è anticipato, rimandano chiaramente sia ai flussi e le rotte che hanno alimentato l’economia schiavista, che a un’impostazione di pensiero razionalista che sfocia nella barbarie – riportate pittoricamente da Arjan Martins, nella sua riflessione sulla black diaspora.
Proseguendo, colpiscono particolarmente la terra impacchettata di Matheus Rocha Pitta, che rimanda chiaramente alla produzione di narcotici declinata in termini metaforici su quel che sono le attività illecite nella manipolazione e controllo del territorio; e la forte critica politica contro la violenza istituzionalizzata, icasticamente rappresentata nel video di Jhony Aguiar, in cui l’artista appare intento a cantare l’inno nazionale con una pistola in bocca.
Un’intera sala è invece dedicata al Movimento Armorial (Ariano Suassuna, Gilvan Samico, Miguel dos Santos): sorto negli anni Settanta con l’intento di mettere a punto un’autentica arte brasiliana transdisciplinare, recuperando un passato semplice e popolare, spazia dalla letteratura (cordel), musica, teatro fino alle arti visive.
Il percorso espositivo si conclude con Era uma vez a Amazônia di Jaider Esbell che, denunciando l’impoverimento delle popolazioni indigene della foresta amazzonica, chiude il discorso iniziato a proposito della narrazione dell’uomo costruttore (e distruttore) di civiltà, che devia nel paradosso. Vai, vai, Saudade riesce così a tessere una trama complessa di storie, appunti e significati da esplorare da vicino e che invita i visitatori a riflettere sul passato e sul presente del Brasile, promuovendo una più profonda comprensione dell’identità di un paese che, attraverso la sua storia, si caratterizza per la diversità culturale, la ricchezza delle idee e le sfumature delle sue contraddizioni.
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