Fino al 18 maggio 2025, Biella, Città Creativa Unesco, accoglie UPLANDS&ICONS, un’imponente esposizione dedicata al fotografo di fama internazionale Steve McCurry (Philadelphia, 1950). La mostra, a cura di Biba Giacchetti, raccoglie oltre 100 scatti allestiti tra Palazzo Gromo Losa e Palazzo Ferrero.
Quella proposta a Biella è dunque una possibilità unica di addentrarsi nella produzione di McCurry, con scatti realizzati nelle cosiddette “Terre Alte” —come Tibet, Afghanistan, Mongolia e Giappone; e un’intera sezione dedicata alle sue immagini più celebri, le sue icone, tra cui il suo ritratto della ragazza afgana con gli occhi verdi.
Per l’occasione, abbiamo intervistato l’artista.
Viaggiare è una parte estremamente importante nel tuo lavoro. Lo consideri una conseguenza della tua dedizione alla fotografia o è la forza motrice dietro di essa?
«Per me, fotografia e viaggio sono inseparabili. La fotografia ha sempre fatto appello al mio lato indipendente, alla parte di me che non voleva essere legata a un ufficio o a uno studio. Quando mi sono laureato, sapevo di voler trascorrere la mia vita viaggiando, sperimentando nuove culture e soddisfacendo la mia curiosità. La fotografia mi ha offerto quella possibilità—è diventata un vero e proprio stile di vita.
Viaggiare è una delle cose più importanti che possiamo fare. Siamo qui per così poco tempo, e vivere il mondo è, a mio avviso, una delle attività più significative che si possano intraprendere. La fotografia è nata dal mio desiderio di vedere il mondo e catturarlo, ed è stata il modo perfetto per vivere appieno questa passione».
Nel tuo lavoro, riesci a catturare momenti profondamente personali e spontanei. Come crei un’atmosfera che permetta alle persone di rivelare se stesse in modo autentico davanti alla macchina fotografica?
«Per me, la chiave del ritratto è creare un senso di fiducia e connessione. Cerco di mettere le persone a loro agio interagendo con loro, non solo come fotografo, ma come persona genuinamente interessata a chi sono. Non metto fretta. Lascio che si sentano a proprio agio nel loro spazio e cerco di rendere l’esperienza il più naturale possibile. Si tratta di creare un ambiente rilassato in cui possano dimenticare che c’è una macchina fotografica puntata su di loro.
Mi concentro su momenti di autentica emozione—che sia uno sguardo silenzioso, un sorriso o una pausa riflessiva. A volte, parlo semplicemente con loro della loro vita, della loro cultura, della loro storia. Questo mi aiuta a comprenderle meglio e penso che le faccia sentire più a loro agio. Più riesco a connettermi con qualcuno a livello personale, più è probabile che abbassi le difese e riveli qualcosa di autentico davanti alla macchina fotografica.
Voglio che i miei soggetti si sentano rispettati e visti per ciò che sono davvero, non solo come soggetti fotografici. Quando accade, l’autenticità emerge nell’immagine».
La tua mostra a Biella presenta oltre cento immagini da diversi momenti della tua carriera. Riflettendo su questo corpo di lavori, cosa muovono in te oggi le tue immagini più iconiche dei primi anni?
«Guardando ai miei lavori più vecchi, li vedo come finestre su un tempo e un luogo che ho avuto la fortuna di osservare e documentare. Quando ho realizzato quelle immagini, non avevo la stessa prospettiva o distanza che ho oggi. Erano semplicemente momenti—momenti potenti—ma non pensavo al loro significato a lungo termine. Stavo semplicemente cercando di catturare la verità di ciò che vedevo, per trasmettere l’umanità e l’emozione delle persone che stavo fotografando.
Oggi, quelle immagini risuonano ancora profondamente con me, ma le vedo anche attraverso il filtro di ciò che sono diventate nel tempo. Guardandole ora, mi ricordano quanto sia stato fortunato a viaggiare e a incontrare così tante persone straordinarie. Penso che il mio lavoro sia sempre stato un tentativo di connettermi con le persone, di trovare quel filo comune di umanità, e quelle prime immagini—alcune delle quali hanno avuto un impatto così duraturo—catturano ancora quello spirito».
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