<<Le mostre sono per gli artisti e le artiste dei palcoscenici in cui presentarsi e presentare le loro opere>>: parte da un presupposto ampio, da brevi cenni sull’universo, la mostra On Stage- Kunst als Bühne, visitabile fino al 14 gennaio 2024 al Mumok di Vienna. In un percorso articolato su due piani del monolitico edificio disegnato da Ortner & Ortner, On Stage presenta oltre 150 opere tra dipinti, fotografie, film, video e installazioni dagli anni ‘60 ad oggi in cui a <<prevalere è l’elemento della messa in scena e dei giochi di ruolo>>. La maggior parte dei lavori provengono dalla vasta collezione del museo, che ne conta circa 10.000. Da Hermann Nitsch a Cindy Sherman, da Andy Warhol a Wolfgang Tillmanns, la mostra ci porta attraverso grandi nomi dell’arte contemporanea, mentre il tema del “mettersi in scena” assume innumerevoli declinazioni, si scompone in tante – forse troppe – stazioni tematiche, voci diverse e arcipelaghi di un mare in cui, come visitatori, non è sempre facile rimanere a galla.
Il percorso, curato da Rainer Fuchs, si apre con momenti storici cardine e immancabili, visto il contesto, come quello dell’’Azionismo Viennese, con le immagini dall’ “Orgien Mysterien Theater” di Hermann Nitsch. La celebre e scandalosa azione “Kunst und Revolution” messa in atto il 7 giugno 1968 da Günter Brus, Otto Muehl, Peter Weibel und Oswald Wiener è raccontata nell’installazione sonora dell’artista Carola Derting, dalle donne che allora furono tra i 300 presenti a quell’evento storico: le voci ci riportano alle impressioni della serata – comprese quelle olfattive – più sconvolgentemente profonde e ridimensionano la portata critica di una protesta rimasta affare prettamente maschile. Anche il lavoro di Otto Mühl è rivisitato in chiave fortemente critica, in mostra, dal gruppo attivista Mathilda, che ne sottolinea le tendenze maciste. Mentre le immagini delle azioni autolesionistiche di Gina Pane sanno ancora sconvolgere, la celebre foto in bianco e nero di VALIE EXPORT che porta a passeggio un uomo-cane-Peter Weibel al guinzaglio conserva intatta la sua irriverente forza metaforica “(Aus der Mappe der Hundigkeit”, 1968).
Dopo la sezione storica, il tema della messa in scena si seziona e rifrange in mostra molti rivoli e sezioni, tra le meno scontate quella sul corpo e le sue trasformazioni, in cui l’identità è messa in relazione all’ambiente e ai suoi oggetti, che sconfinano, si umanizzano, prendono corpo come soggetti. Aspetto, questo, oggi doppiamente affascinante alla luce del recente dibattito sull’intelligenza artificiale e le sue potenzialità. Nei dipinti e disegni di Maria Lassnig le poltrone assumono caratteristiche umane, mentre nelle fotografie di Anna & Bernhard Blume una forza oscura manda gambe all’aria tavolini, divani e persone, trasformando spazio e oggetti in un continuum indissolubile che collassa su sé stesso. Per creare un corpo di donna bastano un grembiule e un fornello all’artista Birgit Jürgenssen, che con la sua “Küchenschürze” (1974-75) dà forma alla critica femminista sui ruoli. I motivi dei corpi-oggetti intrecciati e contorti assumono caratteristiche surreali e teatrali nelle fotografie di Markus Schinwald, elegante maestro dell’unheimlich.
Il mettersi in mostra, il presentarsi è significato insito nel termine “exhibition” (che peraltro dà il nome anche alla testata che state leggendo). Scivolare dall’ exhibition all’esibizionismo, all’ottusa autorefenzialità, è un attimo che la mostra sa cogliere con scatto sicuro: nel grande dipinto “Musée d’art moderne” Jörg Immendorff rappresenta il gotha dell’arte moderna (compreso sé stesso) impegnato a intrattenersi tra quadri e sculture, mentre dalla finestra si vedono scene di guerra e ammazzamenti – e il ricordo corre ai provocatori disegni di Dan Perjovschi all’ultima Documenta. A fare da controcanto alla panoramica prettamente maschile del mondo dell’arte rappresentato da Immendorff il “Painting History Revisited” dell’artista Katrin Plavčak, un ritratto di gruppo alternativo con dodici artiste donne del passato. Sono invece potenti declinazioni contemporanee dell’autoritratto d’artista quelle di Ashley Hans Scheirl e di David Hockney, che, in una mise en abyme, ritrae sé stesso in un dipinto mentre dipinge.
La mostra è lo stagno in cui non solo, come Narciso, si rispecchia l’artista, ma accanto a lui ci siamo anche noi visitatori, come negli specchi di Michelangelo Pistoletto o nella fotografia “Audience 1” di Thomas Struth, che immortala i visitatori alle Gallerie dell’Accademia di Firenze, che da osservanti diventano osservati. Lo stesso gioco al rovesciamento è presente negli scatti – imprevedibili – dell’installazione “Nikon Autofokusfalle” (trappola con autofocus) di Michael Schuster: l’obiettivo della macchina che, fissata su un treppiede, scatta immagini di chi visita la mostra in automatico, senza che possiamo sceglierlo, suona come una risposta beffarda all’iper-esposizione volontaria a cui ci sottoponiamo quotidianamente sulle piattaforme social, spazi performativi e di intrattenimento.
La carrellata, inevitabilmente parziale, si chiude davanti ad uno dei lavori più carichi simbolicamente della mostra, “Untitled (Go-Go Dancing Plattform)” di Felix Gonzalez-Torres: un palcoscenico vuoto, su cui sale, in momenti imprevedibili, un performer -go go dancer- che si esibisce al ritmo di una musica che solo lui può ascoltare dalle cuffie, un’inaspettata silent disco da cui il pubblico è incluso ed escluso al contempo.
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