I Musei Reali di Torino aprono le porte alla retrospettiva dal titolo “Inedita”della fotografa Vivian Maier (1926, New York – 2009, ivi) fino al 26 giugno 2022, dopo una precedente tappa al Musée du Luxembourg di Parigi.
Le sale di Palazzo Chiablese, nel centro della città, ospitano una selezione di oltre 250 fotografie, molte delle quali inedite, oltre ai video Super 8 e oggetti personali di una delle massime esponenti della street photography che, come dichiarato da Enrica Pagella, Direttrice dei Musei Reali di Torino, è quanto mai attuale, parlando di “strada come contemporaneità” che si accosta all’itinerario privato di una donna alla ricerca della sua identità.
Già nel 2019 la Palazzina di Caccia di Stupinigi aveva dedicato una mostra alla grande fotografa che oggi trova consacrazione in questa retrospettiva, al pari di altri esponenti del mondo della fotografia come Robert Frank, Helen Levitt e Robert Doisneau.
Numerose sono le fotografie della serie “americana”, ma la novità è rappresentata dagli scatti inediti datati 1959 di Torino e Genova, in occasione di un viaggio in cui fu molto ispirata e nel quale erano stati utilizzati in una sola giornata tre rullini.
La mostra è composta da dieci sezioni legate da un filo narrativo con la volontà di accompagnare il visitatore adulto ma anche i bambini nel percorso espositivo, orientandosi verso una accessibilità che diventi sempre più universale, come dichiarato da Daniele Accattino, amministratore del gruppo Ares Srl che ha prodotto la mostra, dopo “Capa in Color”.
Anna Morin, curatrice della mostra, ha parlato in conferenza stampa di una esposizione «Molto complessa e articolata, con un linguaggio strutturato», anche per il ricco patrimonio di fotografie a disposizione, circa 150mila scatti. Vivian Maier era di fatto una fotografa amatoriale che ricercava nella fotografia la sua libertà di essere umano e donna.
Le immagini, scoperte a seguito di un acquisto all’asta di John Maloof nel 2007, ci regalano una visione di forte modernità anche nelle tematiche. I temi fondamentali affrontati dalla Maier nei suoi 45 anni di instancabile ricerca sono la vita di strada, il ritratto, il selfie, il cinema e l’infanzia.
La vicenda di vita della fotografa è molto interessante perché unisce due aspetti: la cultura francese umanista e la quella americana street, confermando la singolarità della sua ricerca. Il mistero legato alla sua storia personale accompagna il visitatore durante tutta la mostra, dalla quale emerge la forte volontà di affermazione dell’identità, seppur con un approccio discreto.
Il percorso solitario sembra diventare tuttavia un tutt’uno con ciò che fotografa, «con loro: un uomo, una gamba, una donna, l’altra gamba. Un uomo, una donna, un passo […] Con loro, cammino. Anch’io voglio vedere, voglio leggere nelle strade, con le strade, contro le strade» come riportato nella poesia di Celine Walter in apertura del catalogo monografico della mostra, edito da Skira.
Gli autoritratti di Vivian Maier ci regalano invece il suo sguardo riflesso vetrine e negli specchi, ma anche nelle ombre sulle strade o sui muri con un approccio modernissimo. Sembra quasi di poter assimilare la sua ricerca a quella dei selfie odierni, conseguenza dell’interazione ma anche separazione con il mondo che viene immortalato e fa parte dello scatto.
Nel percorso di mostra fanno da protagonisti uomini e donne del tessuto urbano di New York e Chicago, di estrazioni sociali diverse, primi piani, scatti rubati di vita quotidiana, evocative di vita e del tempo che scorre, quasi facendone percepire la precarietà.
Mani, spalle, schiene, acconciature, rendono quello che Morin descrive come la capacità di Vivian Maier di avvertire «la presenza e la potenza, allettanti e formidabili, delle grandi forze che si agitano sotto la terra, in ambiti che sfuggono alla luce e all’ordine degli uomini».
Le stesse scene vengono catturate anche dalla sua cinepresa Super 8, come a ricreare un documentario di vita, che ci permette anche oggi di assaporare l’atmosfera degli anni ’60, materializzando la sua visione.
La sezione dedicata all’infanzia, in ultimo, ci riporta a quella che era la sua sensibilità avendo lavorato come tata negli anni newyorkesi, intrappolando pose e momenti con uno sguardo attentissimo alle pose, alle interazioni e ai dettagli dei bambini e di ciò che li circonda: «l’infanzia come macchina per liberare il tempo, una cronosfera in cui si sfiorano un numero indefinito di temporalità variabili e instabili che rifiutano di irrigidirsi in un’unità e strapazzano il reale» (A. Morin).
Tra i partner della mostra non a caso il gruppo Kering ha deciso di sostenere la mostra, nel costante sostegno al riconoscimento sul ruolo delle donne nelle arti e nella cultura, cercando di abbattere le disuguaglianze che ancora oggi persistono.
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