Con una selezione di opere di Aglaia Konrad (Salisburgo, 1960), Armin Linke (Milano, 1966) e Bas Princen (Zeeland,1975), il Teatro dell’architettura Mendrisio dell’Università della Svizzera italiana ha inaugurato la mostra “What mad pursuit”, promossa dall’Accademia di architettura dell’USI e curata da Francesco Zanot.
Non esauribile nel logos del concetto e nella semplice sociologia, “What mad pursuit” si propone come verifica, come «esperimento pseudo scientifico della tensione semantica che si genera attraverso l’accostamento di opere realizzate da artisti diversi in tempi e con scopi diversi», spiega Zanot ricordando le celebri Verifiche di Ugo Mulas, quattordici medit-azioni sulle variabili del linguaggio fotografico che relazionarono la pratica fotografica al Concettuale.
Il titolo della mostra – che è il risultato di un processo di collaborazione con gli artisti e tra gli artisti ma è anche una riflessione sul concetto stesso di collaborazione sull’incontro e sull’intersezione di lavori diversi – riprende il titolo del libro dello scienziato Francis Crick, noto per il grandissimo contributo alla scoperta del DNA. Questo testo del 1988, che racconta alcuni dei più straordinari successi della genetica e della biologia molecolare, contiene al suo interno una frase cruciale per le intenzioni della mostra: «in natura le specie ibride sono generalmente sterili ma nella scienza è spesso vero il contrario. I soggetti ibridi sono molte volte eccezionalmente fertili mentre se la disciplina scientifica rimane troppo pura è destinata a deperire».
Questo inno alla vivacità che scaturisce dall’incontro, dalla mescolanza e dall’intreccio, nell’arte come nella scienza, ci avvicina alla straordinarietà di questa mostra, progettata appositamente per lo spazio del Teatro di Architettura. Non si tratta di un’esposizione di fotografia di architettura, non è tematico l’approccio con cui gli sguardi precisi, critici e insieme poetici, di Aglaia Konrad, Armin Linke e Bas Princen si sono appropriati dello spazio. “What mad pursuit” si propone come verifica del rapporto tra architettura e fotografia, e tra fotografia e contesto stesso. Il risultato è una porosità continua tra spazio rappresentato e spazio espositivo, tra spazio rappresentato e spazio reale, che mette continuamente in discussione la funzione documentaria della fotografia e contraddice la sua connotazione bidimensionale in favore della sua materialità all’interno dello spazio.
Aglaia Konrad, Armin Linke e Bas Princen non sono fotografi di architettura ma muovendo dall’idea di architettura come spazio costruito e distaccandosene progressivamente riflettono sull’operazione fotografica tra documentazione e interpretazione: la fotografia, si sa, registra e interpreta allo stesso tempo. Ognuno di loro si è confrontato «direttamente con le pareti del Teatro dell’architettura, ovvero riflettendo sulla distanza da mettere tra le immagini e i muri perimetrali, quindi la periferia dello spazio, e sulle conseguenze che questa provoca sulla lettura delle immagini. Conseguenze che non sono soltanto percettive ma anche semantiche, ricadendo nei significati della nostra lettura», ha spiegato Zanot. Così le opere di Aglaia Konrad, della serie Shaping Stones – avviata nel 2008 e dedicata allo studio della relazione tra società e ambiente, ovvero delle strategie messe in atto dalla nostra specie per appropriarsi del territorio, modificarlo e utilizzarlo per i propri fini – aderiscono alle pareti nel formato di wallpaper lasciandone trapelare la trama, la texture, le sporgenze, il materiale. Giustapponendo epoche e geografie diverse, le opere esposte agiscono come mappe che assumono la materia, la pietra nel particolare, come soggetto. L’indagine di Konrad attraversa epoche differenti fornendo una serie di coordinate per decodificare la realtà, senza tuttavia fornirne una descrizione univoca. Installate sui diversi piani dello spazio espositivo, in un continuo passaggio dal passato al presente, dal naturale al costruito, dall’origine alla trasformazione, le opere svelano una mastodontica possibile conurbazione per cui tante città si uniscono in un solo luogo sfidando il concetto di spazio e tempo.
Il lavoro di Bas Princen, invece, fotografa il paesaggio antropizzato. Princen sceglie di lavorare con la carta riso, rugosa, adatta a trasferire alle immagini un’insolita qualità scultorea, un rilievo vero e proprio, che ci ricorda che nello spazio le opere fotografiche non sono mai immagini ma oggetti, per verificare la trasformazione del contesto urbano, la continua fluttuazione del confine tra ciò che viene considerato naturale o artificiale, e l’impatto dei fattori economici e politici sulle forme e le modalità del costruire. La sua indagine scava in profondità nella natura delle immagini e l’architettura si rivela essere il soggetto per eccellenza per svelarla. Nelle opere esposte, realizzate tra il 2018 e il 2023, disseziona le immagini per far emergere come ogni fotografia sia in realtà un dettaglio che orienta una lettura, ma anche la sovrapposizione tra molteplici autorialità: molte delle opere esposte sono fotografie di altre opere (The Trivulzio Tapestries, Cycle of Bramantino, per esempio) o rappresentazioni di rappresentazioni che gli consentono di riflettere su questo aspetto. Alcune delle opere in mostra sono prese all’interno di architetture, come la Cappella Spada di Roma, lasciando che si innesti una particolare coincidenza: sia le sue opere che gli edifici che le fotografie rappresentano sono oggetti che contengono immagini. È una questione di reiterazione e insistenza che annulla la distanza prossemica dall’opera, non c’è una soluzione definitiva ma si generano sempre più domande.
Armin Linke, infine, che ha conosciuto Aglaia Konrad 25 anni fa e che con Bas Princen si è arrampicato su dei vulcani in Indonesia, ha scelto di estrarre dal suo archivio fotografico una selezione di fotografie proprie di differenti progetti per mescolarle e combinarle al fine di costruire una nuova narrazione in grado di riattivare nuovi significati. L’archivio costituisce uno dei principali soggetti d’indagine di Linke, che ha deciso di usare lo spazio espositivo come display che mima il ritmo di questa architettura come se fosse una vera e propria coreografia. Le opere, da uno schizzo di Oscar Niemeyer alle recinzioni costruite per il G8 di Genova nel 2001, fino a una nuvola che si appoggia perfettamente sul terreno sconnesso di una montagna in Valle d’Aosta, sono posizionate in corrispondenza di alcuni specifici elementi tecnici dell’edificio come i fori sulle pareti di cemento dentro cui scorreva il filo di ferro per reggere le casseformi al momento della costruzione. Quei fori rappresentano la posizione predefinita con la quale il lavoro di Linke si confronta: il risultato è una coreografia in cui le opere assumono lo stesso ritmo dello spazio.
In “What mad pursuit” scenografia e opere di Linke, Princen e Konrad si fondono in un unico aggregato democratico e multiforme in cui gli accostamenti attivano nuovi significati, nuove letture e nuove interpretazioni che assumono la fotografia come oggetto, nel suo corpo, nella sua presenza. Tutte le opere esposte intrattengono un rapporto sia con lo spazio dentro l’inquadratura che con quello esterno risultando fondamentali , in questo mondo stravolto dalle immagini frettolose, per imparare a vedere, ad attivare il pensiero e a distinguere.
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