Whispers of the Self, 2025. Installation view, Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano
Binta Diaw, Zehra Dogan, Regina Josè Galindo, Sandra Gamarra Heshiki, Sarah Jerome, Maria Evelia Marmolejo e Aryan Ozmaei sono le artiste protagoniste della nuova mostra della Prometeo Gallery Ida Pisani, inaugurata il 20 marzo scorso. Un’esposizione complessa, il cui titolo (Whisper of the Self) rimanda ad una percezione di fragilità, un sussurro di qualcosa di interiore, talvolta impercettibile. Le opere esposte negli spazi di Via Ventura a Milano rappresentano tanti piccoli sussurri che compongono una voce più grossa, quella dell’intimità che viene messa in scena attraverso l’arte.
Un viaggio all’interno della poetica di artiste tra loro dissimili, accomunate dalla consapevolezza di se stesse e della loro arte. Ricerche differente, che spaziano dall’utilizzo del corpo per denunciare la violenza di genere, come nel caso della Galindo, passando per la ricerca di Binta Diaw che invece riflette sul concetto di identità attraverso installazioni che raccontano i fenomeni sociali contemporanei (femminismo, questioni di genere, intersezionalità), fino ad una vera e propria critica al concetto di modernità espressa dalla pratica multidisciplinare di Sandra Gamarra Heshiki. Nel caso di quest’ultima, scultura, pittura, video e altri media si incontrano per mettere in dubbio il ruolo dello spazio espositivo e criticare la tradizione artistica degli ultimi due secoli e in particolar modo l’Occidente, reo di appropriazioni culturali (e coloniali) che hanno impoverito l’arte della parte del mondo colonizzata e sfruttata, anche da un punto di vista museale.
Sarah Jerome utilizza invece la danza e la forza espressiva delle immagini. Nelle proprie opere si serve di una particolare tecnica che la vede combinare tracce e cancellazioni, per giungere a lavori finiti dalle tinte vivaci che evocano emozioni contrastanti. Zehra Dogan è forse una delle artiste fondamentali di questa generazione. Già protagonista anni fa al PAC, sempre a Milano, in una mostra realizzata negli spazi dedicati alla sperimentazione del Padiglione d’Arte Contemporanea, torna nella città meneghina con le sue opere struggenti, spesso realizzate con materiali a disposizione poveri e non convenzionali (soprattutto nel periodo in carcere, dopo essere stata arrestata per un disegno in cui aveva rappresentato l’insurrezione curda attraversa la distruzione di Nusaybin città nel sudest della Turchia, quando aveva iniziato ad utilizzare cenere di sigaretta, curcuma e sangue mestruale). Opere di lotta contro le oppressioni a tutti i livelli, di genere e politiche, quelle contro le minoranze e i popoli afflitti da dittature e guerre, che allargano il concetto di identità personale e lo trasformano in quello di identità collettiva.
Regina Josè Galindo fa uso della performance e del corpo femminile come strumento di denuncia delle discriminazioni e delle violenze. Opere crude, dalle tinte opache se non completamente oscure, da esse si evince il senso di impotenza che l’artista condivide con l’osservatore, invitato a riflettere su tematiche legate alla giustizia e ai traumi, sia personali che legati alla collettività. E poi in mostra i lavori di Aryan Ozmaei, che mette in crisi la valenza simbolica degli oggetti (anche qui tipica del mondo Occidentale, musealizzato e impregnato di strascichi coloniali) e di Maria Evelia Marmolejo, che al contrario carica le proprie creazioni di un forte simbolismo, raccontando le difficoltà personali e l’oppressione politica della Colombia.
Le artiste in mostra sono legate dalla necessità di mettere in scena non solo creazioni che esplorino il concetto di identità attraverso la propria lente personale. Piuttosto, la volontà comune diviene quella di estendere la ricerca all’identità collettiva, quella di popoli storicamente oppressi e sui quali ricadono ancora oggi le ripercussioni del colonialismo, del razzismo e delle politiche perpetuate nell’ultimo secolo e mezzo di storia umana. È inoltre da sottolineare come tutte le protagoniste di questa collettiva cerchino, ognuna a proprio modo, di far emergere dai lavori proposti anche il processo creativo alla base di essi, che si tratti di video, di performance o di pittura. Un flusso di coscienza collettivo che porta alla luce insicurezze, desideri e prese di coscienza di sette artiste eterogenee ma legate dalla comune volontà di confrontarsi con le ingiustizie che il mondo ha, da sempre, presentato loro.
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