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A Siena nascerà uno dei poli culturali più articolati d’Italia. Intervista al Presidente di Santa Maria della Scala
Musei
Nasce nel Medioevo come Pellegrinaio sulla Via Francigena. Diventa poi un Ospedale, mantenendo questa destinazione d’uso fino agli anni Ottanta del Novecento quando, grazie al progetto dell’architetto Guido Canali, viene trasformato in un museo oggi fruibile dal pubblico. Santa Maria della Scala, un luogo caro ai senesi, situato di fronte al magnifico Duomo, è oggi uno scrigno sorprendente che ospita diverse collezioni, un museo dedicato ai bambini, il Pellegrinaio con un ciclo di affreschi di artisti come Domenico di Bartolo, Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta e Priamo della Quercia. Ma all’interno delle sue mura, chiuso al pubblico, si cela anche un enorme spazio di 38mila metri quadri che furono le sale del nosocomio. Uno spazio che, seppur permeabile al fascino della rovina, versa oggi in uno stato di abbandono che l’ha sottratto alla città.

La nuova governance di Fondazione Antico Ospedale Santa Maria della Scala, insediatasi circa un anno fa e presieduta da Cristiano Leone, si è fatta onere di un progetto complesso e audace, quello di recuperare questi ingenti spazi e riaprirli con eterogenee destinazioni d’uso culturale e di ricerca. Un percorso che ha coinvolto la consulenza scientifica del curatore e critico di architettura Luca Molinari assieme al suo studio, ragionando su come dare forma a questa grande sfida. Una prima fase di ricerca ha portato alla scelta di tre studi di rilievo internazionale: LAN Architecture, Odile Decq e Hannes Peer, chiamati a lavorare su diverse aree del Complesso per riportare alla luce questi spazi. Arte, architettura, ricerca, contemporaneità: a raccontarci la nuova articolata visione per il futuro della Fondazione è il suo Presidente in questa intervista.

Santa Maria della Scala, adibito a ospedale fino agli anni ‘80, porta storicamente in sé il legame tra arte e cura. È un binomio che ha influito sul modo di pensare alla strategia per un profondo rinnovamento di questo complesso?
«Quando ho iniziato ad analizzare il contesto in cui mi trovavo, ho cominciato dall’identità del luogo. Identità che si costruisce a partire da un punto di vista artistico, culturale e soprattutto simbolico, un valore che “lavora dentro”, una risonanza interna che trasforma anche l’energia dei luoghi. Oggi è fondamentale riflettere sul nesso tra patrimonio storico, artistico, cultura e benessere».
Questo come si traduce in azioni concrete?
«La strategia complessiva che ho elaborato è composta da quattro assi: sono partito da un ripensamento dell’asse manageriale, modificando lo statuto di una fondazione che finora non permetteva l’unione del pubblico e del privato; sono passato alla ricerca di un masterplan che non solo guardasse alla conservazione e alla protezione del patrimonio di Santa Maria della Scala, ma anche alla sua identità profonda e alla sua fruizione da parte della cittadinanza. Il terzo asse è legato alla programmazione espositiva, che si muove attraverso due grandi mostre ogni anno, tra patrimonio storico e contemporaneità».
Quali sono, in questo senso, le mostre in programma?
«Quella legata al contemporaneo è la mostra appena inaugurata di Jacob Hashimoto: consiste nel chiedere a un artista internazionale di posare il suo sguardo sulla storia del Santa Maria e, in questo senso “prendersene cura” attraverso la sua pratica, omaggiando con forza simbolica chi ha curato e chi è stato curato in questo luogo. La mostra legata al patrimonio storico aprirà a ottobre 2025 e sarà dedicata al Vecchietta: questo artista, massimo esponente del quattrocento senese, ha legato profondamente la sua vicenda umana al Santa Maria, vivendo qui per 40 anni, lasciando affreschi importantissimi e addirittura pensando per questo luogo la propria cappella funebre mai realizzata. La mostra sarà curata da Giulio Dalvit, curatore della Frick Collection di New York, un ponte che ci permetterà presto di istituire gli Amici di Santa Maria della Scala negli Stati Uniti».

Facciamo un passo indietro… il quarto asse?
«Riguarda la comunicazione. Finora non avevamo un ufficio stampa né una persona che si potesse occupare dei social media o di nutrire il sito Internet, da poco completato. Anche la brand identity oggi risulta poco chiara e necessita di essere ripensata: questo mi ha permesso di operare sulla pannellistica esterna, che è stata immaginata da Amaranto e permetterà con più chiarezza di far capire a chi arriva da fuori l’identità del museo, anche in preparazione del grande masterplan».
Dal rifacimento di Santa Maria della Scala dell’architetto Guido Canali si arriva oggi a un grande masterplan in cui far convivere i lavori di tre architetti internazionali, un modello di lavoro piuttosto inedito per progetti di questo tipo. Come mai si è deciso di procedere in questo modo?
«Il progetto di Guido Canali, di cui ancora si stavano seguendo le linee per i lavori di ristrutturazione, risale a oltre 40 anni fa e non tiene conto delle esigenze contemporanee del complesso. Dinnanzi a lavori portati avanti acriticamente, ho deciso di rivolgermi a un esperto come Luca Molinari per riflettere sullo stato dell’arte di questo luogo. Ho proposto quindi un concorso di idee per ridefinire un’identità e sono emersi LAN Architecture, Odile Decq e Hannes Peer, tre architetti di chiara fama che conoscono bene l’Italia e presentano elementi di forte complementarietà. Lavoreranno su una parte più museografica, sulla dimensione dell’Auditorium, sull’interior design e su tutto ciò che riguarda ospitalità e accoglienza. Per questo, a Luca Molinari è parso con evidenza che questi autori, invece che mettersi in competizione gli uni con gli altri, potessero invece lavorare in compresenza e in modo organico».
E quindi i tre studi opereranno in modo complementare, mescolando le loro azioni, oppure su tre aree diverse?
«Lavoreranno su aree diverse, però sempre in collaborazione, di modo che nessuna sia completamente separata dall’altra: un’intuizione importante basata sulla storia di Santa Maria della Scala, nato non come progetto unico ma come complesso in cui si sono succeduti diversi gesti architettonici. Allo stesso modo, il risultato finale porterà i segni riconoscibili del linguaggio di LAN, di Odile Decq, di Hannes Peer e di coloro che li hanno preceduti. Una casa della città in cui la sua crescita, nel tempo, possa accogliere l’eredità di diverse generazioni».

Durante la presentazione del progetto è infatti ricorsa questa espressione di Baldassarre Castiglioni, il “palazzo in forma di città”. In che modo Santa Maria della Scala sarà una casa per Siena e quali sono i servizi che potranno essere ospitati al suo interno e messi a disposizione della collettività?
«Ho già attivato dei progetti sperimentali sia con l’Università degli Studi di Siena che l’Università per Stranieri in cui dei corsi sono proprio tenuti al Santa Maria. Un ruolo sempre più importante sarà giocato proprio dalle università che qui potranno tenere interi master, magari costruendo ponti tra discipline diverse. Sarà poi indirizzato agli studenti, che già oggi possono entrare al museo gratuitamente e che potranno poi trovare delle aule studio a disposizione, oltre a servizi di ristorazione che magari abbiano un accesso indipendente. Si punterà l’attenzione sull’Auditorium e poi vorremmo realizzare spazi legati all’innovazione, startup legate alla cultura, incubatori di nuova generazione. D’altronde Santa Maria della Scala è da sempre stato un luogo di grande di sperimentazione, oltre che solo un ospedale. Qui si accoglievano gli orfani, li si educava, si distribuiva cibo durante le carestie. Abbiamo già oggi un ostello della gioventù che fa parte del complesso e che un giorno potrebbe accogliere degli artisti in residenza, gli atelier, fino ai laboratori di restauro che potrebbero costituire anche un introito economico».
Quindi museo, spazi espositivi per mostre temporanee, università, e poi l’auditorium, l’accoglienza, la ricerca, l’innovazione. Il rischio è che vi ritroviate un polo culturale e centro polifunzionale tra i più articolati d’Italia…
«Siamo pronti a correre questo terribile rischio! [ride]. D’altronde l’ambizione del progetto deve essere commisurata all’istituzione per cui lo si sta immaginando. E il Santa Maria è già oggi uno dei massimi complessi in termini di spazio, ma anche di simbolismo, forza e impatto. O si va avanti guardando negli occhi questa “creatura viva”, oppure ci si limita a quella che io chiamo un’azione di make-up».
Cosa intende nello specifico?
«Spesso mi è stato chiesto di ospitare mostre blockbuster, che ho sempre rifiutato: poterebbero visitatori per tre mesi, rimanendo completamente slegate dal contesto. La scelta che è stata fatta è rischiosa, quella di assumersi la responsabilità di una progettualità di lunga durata. È un’operazione “anti-ego”, che non trova un riscontro immediato in termini numerici e di consenso, ma ci permette di passare il testimone a chi verrà dopo. È necessario far capire la visione che abbiamo lanciato, un progetto di lungo corso che ha una complessità maggiore di un qualsiasi “effetto wow”».

Un progetto così ambizioso necessita anche di un budget consistente. Come pensate di far fronte a questo onere?
«Lo statuto, grazie alle ultime modifiche, permette di avere dei componenti privati. Al banco dei lavori è stato invitato anche il Ministero della Cultura, con cui bisognerà confrontarsi prima di fare approvare ufficialmente lo statuto. Nel frattempo, ho avviato una rete di relazioni pubbliche e private (organismi bancari, istituzioni) che possano intervenire. In questa fase, avere una progettualità chiara, che porta firme di archistar internazionali, è fondamentale per presentare la nuova visione di Santa Maria della Scala. Ho già ottenuto consensi ufficiosi che mi permetteranno, una volta che lo statuto entrerà in vigore, di ottenere i fondi. Tutto questo si affianca all’apertura, a tutti gli stranieri che hanno casa nel territorio senese, dell’Associazione degli Amici del Santa Maria e ad azioni di crowdfunding più estese, proprio in virtù della materia sociale su cui stiamo investendo».
La realizzazione di questo ambizioso masterplan richiederà non solo una quantità importante in termini di fondi, ma anche di tempistiche. Si aspetta di vederlo completato prima della fine del suo mandato?
«Penso che prima partiamo, prima iniziamo a realizzare i primi interventi e più saranno visibili i nostri sforzi. La visione sarà concretizzata dal fare e a quel punto sarà più opportuno e anche più facile continuare la linea d’azione, anche per chi verrà dopo di noi. Quindi sì, lo spero. Non per me, bensì per la cittadinanza».
