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Cultura al buio in Francia: intervista a Cécile Debray
Musei
Situato nel cuore di Parigi all’interno del giardino delle Tuileries, il Musée de l’Orangerie nasce nel 1927 in occasione dell’installazione dell’eccezionale serie delle Ninfee di Claude Monet. Accoglierà in seguito la Collezione Jean Walter – Paul Guillaume che vede opere di Paul Cézanne, Marie Laurencin, Henri Matisse, Amedeo Modigliani, Pablo Picasso, Chaïm Soutine, Kees van Dongen, per citarne solo alcuni. L’istituzione, la cui frequenza supera la soglia di un milione di visitatori all’anno, ha rinnovato nel tempo gli spazi per renderli più modulabili e luminosi, e per rispondere meglio alla sua politica espositiva. Accoglie inoltre The Good-bye Door (1967) di Joan Mitchell, un polittico di una delle più grandi astrattiste statunitensi, in perfetto dialogo con le Ninfee questo collega i due livelli del museo. Diretto dal 2017 da Cécile Debray, curatrice e storica dell’arte, dal 2008 al 2017 è stata curatrice capo del patrimonio, responsabile delle collezioni moderne del Musée national d’Art moderne-Centre Pompidou. Ricordiamo tra le sue mostre di spicco “Il modello nero da Géricault a Matisse”, presentata nel 2019 proprio presso l’Orangerie. L’esposizione ha sviluppato la questione del modello e dell’artista che lo dipinge, scolpisce, o lo fotografa, esplorando l’evoluzione della rappresentazione dei modelli neri, come per esempio nei capolavori di Théodore Géricault, Edouard Manet, Paul Cézanne, Henri Matisse, o in fotografi come Nadar. Una curatela che ha permesso al visitatore di rileggere opere come La zattera della Medusa (olio su tela, 1819) di Géricault, che appoggia qui la causa abolizionista, e in cui viene rappresentato Joseph, noto modello di colore, il prediletto dell’artista francese.
Come se la cava una delle istituzioni pubbliche più frequentate della capitale in un periodo di lockdown per la cultura? Ne abbiamo parlato con Cécile Debray.
Il settore culturale sta attraversando un periodo difficile e senza precedenti. La crisi provocata dall’epidemia ha scosso profondamente il mondo dell’arte. Qual è il suo punto di vista?
Durante il primo lockdown ci siamo chiesti, in modo positivo, di cambiare le regole, come la logica di frequentazione. Nel secondo lockdown, le visioni sono più oscure, ed è difficile per tutti. La crisi economica si confronta con le disuguaglianze razziali e sociali dal movimento Black Lives Matter al #MeToo. Nei musei statunitensi c’è la vendita di opere di artisti bianchi, per compensare i licenziamenti o per cambiare la collezione introducendo artisti africani-americani. I musei nazionali francesi, che sono sostenuti dallo Stato, tuttavia devono ricredersi in relazione a questioni che mettono in discussione i nostri modelli di storia dell’arte.
In qualità di curatrice museale, come affronta queste questioni sociali?
Ammetto che queste sono domande che mi pongo da tempo, penso al pubblico e ai temi della storia dell’arte che si trasmettono alle nuove generazioni, e che dobbiamo rielaborare affinché rimangano attuali. Di recente ho lavorato alla mostra “Il modello nero da Géricault a Matisse” per rileggere i grandi personaggi della storia dell’arte come Manet attraverso la questione della rappresentazione dell’altro, del modello nero. Siamo andati a cercare la storia di questi modelli rimasti anonimi per anni, per restituire loro un’esistenza, e avere una migliore conoscenza della comunità nera nella Parigi di quel periodo. Interrogarsi su Matisse che negli anni Trenta ha scoperto New York rimanendo totalmente affascinato da Harlem. Che cosa guarda a Harlem e perché ascolta il jazz? Sono domande completamente nuove che ci permettono di ripensare il modo di leggere la storia dell’arte moderna e dell’Ottocento attraverso i grandi personaggi. È un modo per entrare nella storia dell’arte attraverso questioni attuali, ampliando il pubblico.
Sono comunque approcci molto presenti nella creazione contemporanea.
C’è qualcosa di ambiguo nelle mostre d’Arte Contemporanea perché molto spesso non sono accessibili a tutti, inoltre si appoggiano a un mercato dell’arte estremamente speculativo. Non molti di noi lo dicono, ma penso che abbiamo il dovere di restare garanti di una storia dell’arte che deve essere trasmessa alle nuove generazioni. Ovviamente le persone di 50 anni sanno chi è Manet o Matisse, ma ciò che mi sembra molto pericoloso è vedere tutto ciò spazzato via per mettere della Street Art. Nella storia dell’arte abbiamo grandi artisti e dobbiamo trasmetterli ma mostrando la contemporaneità del loro pensiero e della loro cultura. Non è andando verso il molto contemporaneo che si è giusti. I musei hanno il dovere di fornire un importante quadro culturale – parlo qui dei maggiori musei nazionali – e mantenere i valori abbastanza stabili che evolvendo entrano in dialogo con la società. Ci vuole comunque molta onestà intellettuale.
Quale politica espositiva ha sviluppato in questi tre anni di direzione per parlare dell’arte del ventesimo secolo?
L’Orangerie è un luogo che ospita le Ninfee, il testamento pittorico di Monet, i grandi nomi dell’arte francese dei primi due decenni del ventesimo secolo, e non solo. Volevo realizzare un programma che allo stesso tempo permettesse di parlare delle avanguardie del ventesimo secolo e in connessione con la collezione Paul Guillaume. Quando sono arrivata abbiamo presentato “Dada Africa. Fonti e influenze esterne all’Occidente” per trattare dei legami tra il movimento Dada e la scultura africana o extra-occidentale. Allo stesso tempo, cerco di tracciare delle linee attorno alla figurazione dal Novecento ad oggi, e così ho mostrato figure importanti come Paula Rego nella mostra “Les contes cruels”. Il 2021 ci sarà una mostra di Soutine e De Kooning, già rinviata di un anno, e David Hockney che esporrà il suo lavoro sulla Normandia.
Contrepoint contemporain è un appuntamento con artisti che sono invitati a creare esplorando le collezioni del museo. Ci può parlare di questa iniziativa che ha preso il via nel 2019?
Un museo secondo me può prendere vita da uno sguardo contemporaneo, quindi ho pensato a un programma basato sulle Ninfee, perché è un’opera mondiale, fluviale, che continua ad affascinare molti artisti, invitando tre artisti all’anno, come Alex Katz e Patrick Tosani.
Lei è presidente dell’associazione Archives of Women Artists, Research and Exhibitions (Aware), che tra gli obiettivi ha quello di riabilitare le artiste sottorappresentate nella storia dell’arte. Ha collaborato alla magnifica mostra elles@centrepompidou sotto la direzione di Camille Morineau, presentata al Pompidou dal 2009 al 2011. Ce ne può parlare?
La mostra “elles@centrepompidou” diretta da Camille Morineau ha esposto solo artiste donne parte della collezione museale, lungo ben 4mila metri quadrati. È stata una mostra molto importante ma non facile da montare. Personalmente, mi sono occupata del periodo moderno e Camille del periodo contemporaneo. Per il periodo moderno è stato difficile perché ci sono meno donne. ma è stato importante parlarne perché sono artiste davvero sorprendenti. L’esposizione è stata presentata in seguito in versione ridotta a Seattle e con più donne statunitensi e poi a Rio de Janeiro. A Rio è stato fantastico poiché la scena artistica brasiliana è quasi matriarcale, i grandi artisti contemporanei, i grandi movimenti sono incarnati da donne. Il MoMA dopo la nostra mostra ne ha realizzata una con solo artiste donne. Siamo state abbastanza pioniere.
Cosa distingue la programmazione del Musée de l’Orangerie da quella già molta ricca della capitale francese?
Quando ho assunto la direzione del Musée de l’Orangerie, mi sono resa conto che era un museo molto popolare tra i turisti, ed era assolutamente necessario aumentare il pubblico a livello nazionale e parigino. Come? Aprendo al contemporaneo e proponendo delle mostre specializzate sull’Arte Moderna. Questi due aspetti che hanno funzionato molto bene. C’è anche un programma di danza contemporanea a scala umana, che si chiama Danse avec les nymphéas. Abbiamo i migliori coreografi che vengono a proporre le loro creazioni il lunedì sera, e posso dire che questi incontri godono di un gran successo. Con tutti questi eventi siamo diventati abbastanza visibili, ci sono molti artisti contemporanei che mi scrivono per essere presentati qui. Dal 2018 abbiamo avuto più di un milione di visitatori all’anno. È enorme!
A proposito di successi. Nel 2019 il Musée de l’Orangerie ha battuto il record di presenze con 1.029.925 visitatori, più del 3% rispetto al 2018. Nel 2020 la frequenza è crollata. Come si sopravvive?
Penso che siamo fortunati perché siamo sostenuti dallo Stato che ci permette di pagare gli stipendi e di mantenere la nostra programmazione. Inoltre, abbiamo anche un capitale circolante, poiché siamo obbligati di mettere una parte della nostra biglietteria in una riserva, proprio in caso di crisi. Detto questo, stiamo comunque vivendo un periodo pieno di interrogazioni dove bisogna rimanere molto saldi sulle nostra fondamenta. Per noi è più semplice perché lavoriamo su una collezione, ci sono siti in cui non ci sono collezioni e che hanno modelli economici molto indeboliti da questa profonda crisi, come il Palais de Tokyo.
La programmazione del Musée de l’Orangerie punta sui giovanissimi. Giusto?
Abbiamo aumentato di oltre il 20% la presenza dei ragazzi tra i 18 ei 25 anni, grazie a una programmazione più dinamica che funziona. Ci sono anche eventi specifici come le Curieuses nocturnes. Si tratta di serate per studenti, con feste a tema legate alle mostre, in cui sono intervenuti anche gruppi techno. Durante la chiusura a causa della pandemia, queste serate sono diventate completamente digitali.
Nel 2010, il Musée de l’Orangerie è entrato a far parte del Musée d’Orsay in un comune istituto pubblico, riuniti sotto la presidenza di Laurence des Cars. Come si svolge questa collaborazione?
Il Musée de l’Orangerie è una piccola struttura ma che in realtà si avvale dei mezzi di una grande istituzione come il Musée d’Orsay. Noi lavoriamo su una programmazione molto specifica, quella del ventesimo secolo, i campi cronologici dunque tra questi due luoghi culturali sono diversi. Credo sia importante continuare a sottolineare questa distinzione.
Lei è una specialista di Matisse. Ci sono ancora cose da dire su questo grande artista?
Nella mostra “Le Modèle noir, de Géricault à Picasso” è stata dedicata una parte importante a Matisse. Ripercorrendo il suo viaggio ad Harlem e il suo rapporto con il movimento Harlem Renaissance. Tutto questo non è mai stato studiato. Sto anche preparando un progetto in collaborazione con il museo di Philadelphia, dal titolo “Matisse, cahiers d’art”, quando negli anni trenta era supportato dalla rivista Cahiers d’art. Sarà questa un’occasione per parlare della sessualità di Matisse. Ho un progetto su Matisse con la curatrice newyorchese Denise Murrell intorno Harlem Renaissance, è affascinante. C’è ancora molto da dire. Quando hai artisti delle dimensioni di Matisse, Picasso, Michelangelo, di Raffaello, devi rivisitare costantemente le loro opere, perché non ha senso fare l’ennesima retrospettiva se non abbiamo più niente da dire.