04 gennaio 2024

Il direttore Andrea Lissoni a Monaco: «vi racconto la mia Haus der Kunst»

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A tre anni dalla sua nomina come direttore artistico della Haus der Kunst di Monaco, Andrea Lissoni racconta come sta rinnovando l’istituzione dalla pesante eredità

_Lissoni_Foto di Maximilian Geuter

C’è un luogo molto noto (e instagrammato) a Monaco, dove in ogni stagione e a ogni temperatura ragazzi e ragazze in muta fanno surf in centro città: è la Eisbachwelle, l’onda generata dal fiume Eisbach all’ingresso del grande parco cittadino Englischer Garten. A pochissimi metri da questo insolito spettacolo urbano sorge la Haus der Kunst, con la sua architettura monumentale, severa, nata dal progetto di Paul Ludwig Troost, su incarico del regime nazista nel 1937.

L’Haus der Kunst è oggi un importante centro d’arte contemporanea a livello internazionale, con un’eredità pesante da gestire, non solo per il suo passato: c’è il progetto di un restauro di David Chipperfield che ha fatto molto discutere, mentre dopo la scomparsa del suo direttore nel 2019, Okwui Enwezor, l’istituzione ha attraversato difficoltà economiche. A farsi carico di questa pesante eredità è Andrea Lissoni. Nominato direttore artistico della Haus der Kunst nell’aprile 2020, il curatore milanese è abituato a muoversi in grandi istituzioni – in tutti i sensi – e non sembra spaventato dalle sfide.  “pesantezze”. «Quando sono arrivato ho percepito nell’edificio un’atmosfera grave mentre accanto, con i ragazzi che fanno surf, c’è una bomba umana energetica incredibile – come è possibile che a pochi metri ci sia un crollo, un buco nero, mi sono chiesto…» ci ha raccontato. Ecco, uno degli snodi della visione di Lissoni sembra essere proprio questo, nel saper riconoscere le energie, quel flusso d’onda dei giovani surfisti e farlo permeare all’interno, dentro le fredde mura della Haus der Kunst. E anche se qualcuno forse storcerà il naso, una cosa è certa: la sua visione ha un fortissimo sapore di futuro.

A proposito dei surfisti vicino alla Haus der Kunst, lei si è fatto ritrarre con i piedi nell’acqua: è una scelta particolare, che vuole rompere con una certa immagine di compostezza istituzionale, o sbagliamo?

«Si, faccio il bagno nell’Eisbach, e quell’immagine, scattata nel 2020, rifletteva una condizione reale, fisica, siamo nell’acqua, non abbiamo i piedi saldi, siamo in una condizione di drifiting, alla deriva… quando sono arrivato ho percepito nell’edificio un’atmosfera grave mentre accanto, con i ragazzi che fanno surf, c’è una bomba umana energetica incredibile – come è possibile che a pochi metri ci sia un crollo, un buco nero, mi sono chiesto… e allora, tra le altre cose, abbiamo aperto le porte per la mostra di Nakaya e attraverso l’acqua abbiamo legato i due mondi».

Lei è da tre anni alla guida della Haus der Kunst di Monaco, un’istituzione con una storia complessa, che ha preso in mano nel periodo difficile della pandemia. Quali le urgenze che si è trovato ad affrontare e soprattutto su quali aspetti sta puntando la sua visione?

«Lasciando da parte questioni strutturali e finanziarie molto complesse, ma risolte, uno dei primi punti da affrontare era far tornare il pubblico, che non fosse solo quello della nicchia internazionale e straordinaria di Okwui Enwezor, ma che facesse da ponte con il futuro, con un senso nella società che sta cambiando. Uno dei primi strumenti in questo senso è stato aprire TUNE».

Il formato delle “Soundresidencies” brevi residenze d’artista tra suono, musica e arti visive

«Si, è una linea che non esiste in nessun altro museo: cambiando il programma radicalmente invece che far parlare le mostre faccio parlare direttamente gli artisti e le artiste, la cosa è più leggera e diretta e ha operato una trasformazione. Nulla più della musica è riuscita a portare insieme le persone e veicolare messaggi, è uno spazio orizzontale che non ha bisogno di gerarchie. Un altro intervento è stato quello sulla “Mittelhalle”: era vista come una piccola Turbine Hall per le sculture e l’ho cambiata per renderla lo spazio dell’engagement, d’incontro, della possibilità di interagire con artisti. Ma i cambiamenti sono stati molti altri…»

Ad esempio?

«Un altro aspetto riguarda la struttura interna, io punto in modo profondamente sincero sull’unione dei dipartimenti, curatoriale e di learning (mediazione, ndr) e l’inizio è stato traumatico, soprattutto per il dipartimento curatoriale, che in Germania ha una tradizione accademica. Sempre parlando di “learning” ho portato avanti quello che ho già fatto in passato alla Tate e all’Hangar Bicocca, ovvero credere più alla percezione basata sul corpo che al fatto di dover assimilare contenuti leggendo. E anche nelle scelte del programma, continuerò a lavorare con artiste e artisti interessati più alle trasformazioni percettive che agli oggetti».

Inside Other Spaces_Agostino Osio

In altre occasioni ha sottolineato l’attenzione all’accessibilità e alla sostenibilità, anche negli allestimenti…

«Sì, abbiamo moltissima leichte Sprache (lingua facile), testi a parete agili e accessibili, mentre la ricerca accademica è delegata ai cataloghi. L’allestimento è concepito per non avere persone che camminano intorno ai muri. Inoltre, sono contrario a far viaggiare gli oggetti, produciamo molto noi qui a Monaco per ragioni di sostenibilità; se dobbiamo farci spedire opere cerchiamo di fare in modo sia da un unico posto».

Un cambio di passo che è emerso anche in una nuova identità visuale

«Ho lavorato alla trasformazione della percezione della Haus der Kunst, che prima veniva vista come una specie di museo e invece vorrei fosse un centro di arti. Per la nuova identità l’idea era avere un’icona che ricordasse un forum, mentre i colori si ispirano banalmente a quelli del contesto, il verde dell’Englischer Garten ed il rosato dell’architettura. Il font non è facilmente leggibile, certo, ma tanto il nome di un artista come WangShui non lo si riconoscerebbe comunque, non facciamo mostre di “grandi nomi” tipo Basquiat: sei tu, come istituzione, a creare il contenuto e non il contenuto a portare numeri. È un linguaggio un po’ familiare e un po’ alieno, come quello del contemporaneo».

Rimane comunque la sfida di un edificio monumentale dalla pesante carica simbolica…

«Quando parlo della scelta di fare un certo tipo di mostre e di esporre tante artiste donne per me non si tratta di opportunismo, ma di qualità: vorrei dare un tono diverso all’edificio, renderlo più trasparente e “ammorbidire” appunto la tradizione del patriarcato architettonico. In questo senso, nulla di meglio della mostra di Fujiko Nakaya “Nebel leben” che ha aperto le porte della casa allo spazio esterno, una specie di esorcismo. Inoltre, utilizzo l’edificio come linguaggio, ad es. ho re installato sul fregio all’esterno l’opera di Mel Bochner “The Joys of Yiddish”, (lunga scritta con una serie di insulti in termini yiddish giallo su nero, che ricorda le fasce utilizzate dai nazionalsocialisti per stigmatizzare la popolazione ebraica, ndr), mentre in un’area unica come il bunker presentiamo mostre di soli video che si pongono in un rapporto frontale con la storia, come in Wonderland del Karrabing Film Collective. Tornando alla Mittelhalle, con il progetto “Sitzung” di Martino Gamper abbiamo tentato di cambiare la percezione dello spazio spezzandone l’altezza».

A proposito del progetto di Martino Gamper, nel manifesto compaiono ragazzi e ragazze in muta, sembra abbiano appena finito di fare surf nella Eisbachwelle

«Mi fa molto piacere che venga notato questo aspetto, è un’immagine con cui abbiamo cambiato i codici della comunicazione e per certi versi è stato traumatico, anche internamente. Ma per me era fondamentale che l’immagine fosse riconoscibile e facesse percepire un’esperienza, accogliere la condizione di stare insieme seduti -che poi è intellettualmente molto interessante».

E la sua posizione rispetto al progetto di David Chipperfield per la Haus der Kunst?

«Era un treno in corsa quando sono arrivato e non posso metterci un tronco e deragliarlo. Riportare l’edificio a come era nel 1937 è per certi versi spaventoso e rischia di essere fuori tempo, sarebbe un po’ bizzarro ritrovarsi con le condizioni perfette della “Große Deutsche Kunstausstellung” 100 anni dopo- ma non posso giudicarlo fino in fondo perché non sono tedesco. Attraverso il programma posso suggerire che con investimenti minori e orientati alla sostenibilità si otterrebbe un risultato che riscuoterebbe consenso a livello locale e internazionale».

Haus der Kunst Nakaya_Foto Andrea Rossetti

Ma il progetto si farà?

«Sì, c’è un’alta possibilità che intorno al 2027 – 2028 venga realizzato, devo dire in maniera trasparente che il mio programma è stato scelto perché può prendere forma ed esistere a prescindere dalle mura fisiche, è una specie di lungo festival, che potrà essere spostato in un luogo che sicuramente non sarà un museo, ma magari un tendone, un edificio postale … e sto concependo il programma come se questo stesse già accadendo».

Insomma, un campo di possibilità e una liberazione…

«In un certo senso è un regalo perché questo approccio ti spinge a far cadere tutti i rituali, ad esempio all’inaugurazione delle mostre la classica Einführung introduzione: ora facciamo delle conversazioni con gli artisti e le artiste, è molto più leggero e può essere divertente».

In diverse interviste ha parlato dell’importanza del coinvolgimento dei giovani, sta riuscendo nell’intento?

«Non è stato semplice e ci sono stati momenti di frizione anche con gli amici del museo, ma direi proprio di sì e i più giovani hanno convinto anche i senior, come si è visto per la mostra dei Dump Type sono stati i nipoti a portare i nonni. E vogliamo continuare su questa strada, ad esempio, per “Other Spaces. Environments by Women Artists 1956 – 1976” abbiamo fatto una prima inaugurazione solo per 120 bambini e le loro maestre, abbiamo aperto la mostra prima a loro…vogliamo consegnargli il senso di un’istituzione che non è pesante, opulenta».

E comunque lo scorso 2022 è stato un anno record con un’affluenza superiore al periodo pre-pandemia ed in cui solo la mostra di Nakaya ha raggiunto i 120 mila visitatori…

«È stato un anno deflagrante, anche se non l’avevo pianificato, altrimenti la pressione sarebbe troppo alta. Ma oltre ad attirare nuovo pubblico è stato fatto un anche un lavoro di prossimità forte, con collaborazioni con le istituzioni ad es. con il Kunstverein per la mostra di Tony Cokes, o creando affinità tematiche per la mostra di Joan Jonas e quella di Etel Adnan al Lenbachhaus o per Technobodies anche insieme al Museum Brandhorst…»

Qualche anticipazione sul programma futuro?

«Tutto il programma è in risonanza, unito: l’elemento dell’acqua nelle ricerche di Nakaya e Jonas, l’intelligenza artificiale, il metaverso, la natura e l’artificio nella pratica iper-contemporanea di WangShui con cui è in dialogo la mostra che abbiamo inaugurato a settembre “Other Spaces” sugli ambienti immersivi. Una linea che a sua volta si ricollega alle ricerche di artisti e artiste che abbiamo presentato di recente, come Heidi Bucher, Franz Ehrard Walther e Joan Jonas e con quelle di Rebecca Horn, che presenteremo – è arrivato il momento di riguardare a questa artista, anche per l’attenzione che ha dedicato al corpo attraverso nuovi linguaggi».

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