Uno straordinario progetto di rinnovamento ha travolto la struttura del museo di arte moderna e contemporanea più famoso al mondo. Il MoMA di New York, riaperto il 21 ottobre, si è trasformato non solo nell’impianto architettonico ma anche nell’allestimento, nel tentativo di instaurare un innovativo dialogo tra le opere e le tematiche più urgenti del contemporaneo.
Se nell’aspetto architettonico il cambiamento è stato accolto con grande approvazione, nelle scelte culturali ha invece suscitato questioni controverse. Il critico d’arte newyorkese Jason Farago si è schierato, in un ampio articolo del New York Times, dalla parte di chi legge nel nuovo MoMA un’incredibile rivoluzione. Gli attuali allestimenti sarebbero infatti elaborati con accostamenti che uniscono, con straordinaria flessibilità, importanti opere del ‘900 a pezzi di arte contemporanea, fotografia e arte performativa.
Uno degli esempi più incisivi, utile a comprendere tale innovazione, è l’accostamento di Les Damoiselles d’Avignon, di Pablo Picasso, uno dei pezzi più importanti del museo, ad American People Series #20: Die del 1967 di Faith Ringgold. Secondo Farago, fino a quindici anni fa, sarebbe stato impensabile vedere accostato un celebre dipinto a un’opera di un’artista americana nera degli anni ’60.
Tuttavia, in un articolo di Hyperallergic, Ilana Novick legge in questo accostamento uno sbilanciamento totale, quasi tokenistico, cioè inclusivo ma senza essere realmente rappresentativo. Nonostante l’autrice riconosca quanto sia incoraggiante che un dipinto di Ringgold abbia preso nuova vita, ha evidenziato come l’attenzione rimanga focalizzata sul “sacro” dipinto di Picasso.
Viene dunque da chiedersi se valga ancora oggi la questione che sollevava Claire Bishop nel saggio Museologia radicale del 2017: È davvero moderno il Museo d’Arte Moderna?
Il MoMA è stato lungamente accusato di perpetuare una retorica di esclusione nei confronti di artisti che non rientravano nella categoria dell’uomo bianco occidentale. Una di queste voci è stata quella di Maura Reilly, che l’anno scorso ha pubblicato il saggio Curatorial Activism. L’autrice racconta della presa di coscienza guadagnata negli anni in cui lavorava al MoMA nei confronti della collezione permanente, che raccontava la storia dell’arte del ‘900 con una narrativa legata esclusivamente ad artisti occidentali.
In questo nuovo allestimento sembra che sia stata accolta una volontà più comprensiva seppur con esiti discussi, che vedono in parte tradita la tanto attesa esigenza di rappresentare in toto l’energica e multiculturale città di New York. Ora resta solo da vedere se la rotazione di un terzo della collezione permanente, che avverrà ogni sei mesi, sarà in grado di educare gradualmente il nuovo pubblico, permettendo di sviluppare narrative sempre nuove.
Resta comunque certo che il progetto del nuovo MoMA, affidato allo studio newyorkese Diller Scofidio + Renfro, abbia fatto centro nella progettazione dei nuovi spazi. I 3700 mq aggiuntivi sono stati impiegati per l’estensione della scala Bauhaus, la creazione di due grandi gallerie per accogliere più adeguatamente la collezione permanente e le mostre temporanee, la costruzione di un salone con terrazza esterna all’ultimo piano e una nuova area lounge al primo. Questa trasformazione costituisce senza dubbio l’occasione per il MoMA di un nuovo inizio, che apre a grandi prospettive per il futuro.
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