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Nel Bosco di Capodimonte riapre il Giardino Torre: che sia di esempio per la politica museale
Beni culturali
Ci sono passata tante volte per il Real Bosco di Capodimonte, costeggiandolo, per andare al museo. Ricordo che c’è stato un tempo in cui era un non luogo, un brutto posto dove era proibito avventurarsi, «C’è in giro brutta gente e si possono fare incontri pericolosi», avvertivano. Ricordo le erbacce, la sporcizia, i mozziconi di sigaretta nei viali e i vigorosi calci al pallone sul prato malandato all’ingresso della Reggia. Ora posso addentrarmi nel Bosco, andare alla chiesetta, decorata da Santiago Calatrava, di fronte alla scuola di ceramica dell’Istituto Caselli, vedere le mostre di opere d’arte approntate nell’antico cellaio, che è il grande spazio dove un tempo si conservavano al fresco le riserve alimentari.
Ci sono altre antiche costruzioni nel Real Bosco di Capodimonte. 17 in tutto. Tutte ristrutturate. Ognuna aveva una propria determinata funzione. Anche nel piano generale, ovvero nel masterplan – come si dice-, ideato dal direttore Sylvain Bellenger, ognuna di queste costruzioni ha una propria determinata funzione, che è simile o, a volte, molto diversa da quella originaria, giacché non si può pensare che, in origine, vi ci fossero edifici per la digitalizzazione delle opere d’arte, come avviene oggi. Camminando per il Bosco, vedo in giro giovani o meno giovani che fanno running, passeggiano o leggono o chiacchierano seduti sulle panchine che, per iniziativa della Direzione, sono state offerte gratuitamente dai cittadini-mecenati, che vi hanno apposto il proprio nome o quello di una persona cara. Tutto trova il proprio posto in uno spazio libero, perché ben ordinato, secondo una discriminazione intelligente. Ci è voluta una bella testa, e tanto lavoro, per ideare, organizzare e quindi realizzare tutto questo. Non è piaggeria affermare che sia anche merito del Direttore.
Ora mi sto dirigendo alla Stufa dei Fiori. Si tratta del piccolo corpo di fabbrica addossato alla Palazzina detta dei Principi – dove alloggiava la numerosa figliolanza dei Reali -, che ospiterà, l’anno venturo, secondo il citato masterplan, la collezione di Arte Povera che la gallerista Lia Rumma ha donato, lo scorso anno, al Museo di Capodimonte. Qui, nel Bosco, ogni luogo, e ogni pietra, ha una storia antica in via di trasformazione. La Stufa dei Fiori ora è diventata un’accogliente tisaneria. Un tempo era considerata un luogo più riparato, dove potevano meglio attecchire le piante esotiche che provenivano dai Paesi caldi. In proposito, forse è interessante meditare sulla notizia che il Regno di Napoli, fino al 1860, non aveva colonizzato Paesi extraeuropei, come avevano fatto le grandi Potenze colonizzatrici Spagna, Portogallo Inghilterra e Francia, per esempio. E quindi i prodotti esotici venivano regolarmente acquistati oppure, dati i buoni rapporti che il Regno di Napoli aveva con gli altri Paesi, erano gratuitamente ricevuti in dono.
Dopo una tappa alla tisaneria, devo spostarmi, in golf cart, verso il limite orientale del Bosco, che è grande due volte quello di Caserta, per raggiungere il Giardino del Re con il Casamento Torre, che è stato aperto in questi giorni al pubblico. Dopo il restauro botanico e architettonico, voluto dal Direttore, è ritornato al suo originario splendore di tenuta agricola e vivaio. «È il paradiso terrestre», dice Bellenger. Ma è soprattutto una rinascita, ed è opera anche sua. Tutto il Real Bosco di Capodimonte, disegnato nel Settecento dal napoletano Ferdinando Sanfelice, sembra essere resuscitato, superando, d’un balzo, il logorio del tempo.
Per la cronaca, il restauro botanico è stato condotto da Euphorbia – società parte di Delizie Reali, consorzio che ha una concessione di 20 anni sul Giardino Torre e sulla Ex Serra – Stufa dei fiori, sede della tisaneria –, quello architettonico da Minerva Restauri, che delicatamente hanno messo mano su un patrimonio botanico e architettonico di antico e altissimo valore, anche storico. Il risultato è un’indicibile, naturale e raffinata bellezza. L’edificio ospiterà un ristorante a gastronomia territoriale d’eccellenza, una pizzeria nel forno storico – dove è stata nominata per la prima volta la Pizza Margherita – e un centro didattico di educazione alimentare e etnobotanica.
Nell’immaginazione generale, la tenuta di Capodimonte serviva esclusivamente alla caccia e alla coltivazione di leccornie riservate ai reali Borbone. Non è esatto: ogni sito reale era una realtà produttiva; agricola, come Capodimonte e Carditello, o industriale, o meglio artigianale, come San Leucio. La storia ci dice che, nel Giardino Torre, fu piantato il primo albero del mandarino e fu costruita la prima stufa per il ricovero dell’ananas. E anche ora sono coltivati piante e frutti esotici ma continuano a essere prodotte le antiche coltivazioni, come “’a cerasa ‘o monte” – cerasa, cioè ciliegia – ‘a papaccella napoletana, la melanzana, la zucca lunga, lo zucchino San Pasquale e i suoi sciurilli.
Osserviamo che ogni intervento in passato era stato studiato con intelligenza e rispetto della natura. Così era stata spostata dal bosco la monumentale fontana, che ora fa bella mostra di sé nel Belvedere accanto alla Reggia, per non dar fastidio al magnifico storico canforo, che così aveva potuto allargare le sue radici e i suoi rami. Insomma, nel tempo antico, si cercava di conservare quello che di buono c’era, senza distruggere insensatamente quello che c’era prima.
Mi viene da fare questa osservazione a proposito della notizia che il direttore Bellenger dovrebbe, secondo il nostro regime burocratico, finire il suo secondo mandato nel prossimo ottobre. A sostenere una sua permanenza oltre i limiti imposti per legge, c’è l’attuale momento di grande popolarità che ha Napoli nel mondo, come ha indicato la mostra, lo scorso anno a Londra, nella prestigiosa Colnaghi art Gallery, che ha sede anche a New York e a Madrid, intitolata semplicemete “Naples”. E c’è la fortuna del presepio e della sua commercializzazione. E il successo delle mostre che Bellenger ha portato a Parigi, quelle di Vincenzo Gemito e di Luca Giordano e quella attuale delle opere del museo di Capodimonte al Louvre.
Con l’allontanamento del direttore Bellenger, si dovrebbero affrontare delle inevitabili complicazioni. In particolare, come si potrebbero concludere le impegnative iniziative che hanno scadenza nel 2025? Come potrebbero essere completati i lavori edilizi del museo e l’acconcia collocazione delle sue opere d’arte? Che cosa accadrà del programma della loro digitalizzazione? Che fine farebbe il masterplan così bene organizzato, che attende la sua completa attuazione?
C’è la richiesta di non mandare tutto all’aria. Lo chiedono persone di cultura, come il Maestro Riccardo Muti, e quelle che hanno firmato petizioni che vogliono “Sylvain Bellenger Commissario Straordinario fino al 2025”. È auspicabile dunque che tutto questo lavoro non venga disperso e che possa proseguire verso la sua opportuna conclusione. Al ministro Gennaro Sangiuliano, napoletano, la decisione.