Un progetto performativo di sound art per dare voce, e musica, alle collezioni delle Gallerie d’Italia nelle quattro sedi di Vicenza, Milano, Torino e Napoli: così, in un dialogo tra arti sonore e visive, prende corpo la collaborazione Davide Boosta Dileo con il patrimonio artistico di Intesa Sanpaolo. Il primo appuntamento è per il 10 ottobre alla Galleria d’Italia di Vicenza dove il compositore, tastierista e cofondatore dei Subsonica terrà uno speciale concerto scaturito da La caduta degli angeli ribelli di Francesco Bertos: Boosta ha scelto in ogni sede un’opera della collezione che lo ispirasse e, insieme alla sua musica, «Diventasse un’opera terza».
Del resto, per Di Leo «L’arte è uno strumento, ognuno la utilizza per quello che gli serve: intrattenimento, riflessione, consolazione. Se un’opera mi muove l’ispirazione a creare, sarà il seme dal quale è germogliato qualcos’altro». Le prossime date di Gallerie sonore sono il 25 ottobre alle Gallerie d’Italia a Napoli, il 29 ottobre nella sede di Torino e il 22 novembre in quella di Milano. All’insegna della contaminazione tra suono, arte e spazio, il cuore della ricerca di Boosta non solo come musicista.
Come nasce Gallerie sonore?
«Dalla passione per il bello e da una convinzione: curiosità e ispirazione per un artista sono il pane quotidiano, ma non sempre si possono generare in maniera autonoma. Patisco l’idea che i musei di solito siano muti e a volte, nella mia esperienza di fruitore, quasi intimorenti. Attraverso la musica c’è invece una bella possibilità sinestetica per amplificare la potenza del viaggio all’interno del museo. La musica è la forma d’arte più orizzontale possibile: un grande capolavoro può turbarti, provocare una piccola forma di soggezione, mentre la musica siamo abituati ad averla già nel cuore, è molto più una consuetudine rispetto a una scultura o un dipinto. Ed è una compagna di viaggio di tutta la vita. Ma per me tutta l’arte è uno strumento che serve nel momento in cui la scegli».
Perché a Vicenza ha scelto La caduta degli angeli ribelli di Bertos?
«È un pezzo imponente: a parte il gesto artistico in sé eccellente, ha risuonato nelle mie corde perché è molto attuale l’eterna lotta tra il bene e il male, rappresentata da questa masnada di poveri diavoli. Le 60 figure dei demoni che sembrano quasi di Purgatorio, perché non hanno la potenza del diavolo né quella dell’arcangelo, siamo un po’ noi poveri diavoli in mezzo. Ci sono un sacco di allegorie a cui riferirsi ed è molto toccante. Mi viene molto naturale sentire il suono di quello che guardo, o immaginarmi come potrebbe suonare. Su quell’opera mi è venuto istintivo».
Che musica le ha ispirato?
«Su un tappeto sonoro di lastre che ho registrato c’è un dialogo di pianoforte tra l’alto, l’arcangelo, e il basso, il demone. Nel medioevo c’era l’accordo del diavolo, degli intervalli che non erano consonanti per una questione di fisica, perché nell’accordature ci sono cose che non possono suonare perfettamente armoniche. Venivano considerati gli accordi maledetti perché richiamavano forze oscure. Mi piace l’idea di giocare su questo racconto e far combattere le due mani: la mano sinistra che si appoggia su accordi che non sono mai riposanti, e la mano destra che è la mano dell’angelo invece racconta potete una melodia o gli accordi più perfetti».
La lotta tra il bene e il male, i poveri diavoli che subiscono: risuona sempre molto attuale…
«È il significato dell’arte che dura nei secoli. Penso al compositore spagnolo Mompou, minimalista dei primi del Novecento, che compose uno dei suoi pezzi che amo di più, Pájaro triste, all’alba dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. È incredibile come ascoltandolo e contestualizzandolo nella sua epoca, ma anche riportandolo nel contesto attuale, si senta risuonare esattamente quell’atmosfera greve, ma intrisa di romanticismo, perché quando comincia una guerra o c’è un momento brutto hai la disperazione ma anche il sogno che questo finisca e di riprendere in mano la tua vita».
E nella galleria di Milano?
«Il lavoro di Alighiero Boetti Ononimo, una serie di opere a biro rossa che faceva eseguire da altri in una sorta di “meta pratica dell’arte”. Anche lì ci sono diverse chiavi di lettura: da lontano questi undici quadri sembrano undici chiazze rosse omogenee, ma se ti avvicini noti che cambia la mano, cambia il lavoro fatto sulla tela. Musicalmente la prima cosa che mi è venuta in mente, con un colore solo, è tenere un suono complesso o un accordo, una serie di suoni armonici che rimangono fermi perché senti gli stessi intervalli alla stessa altezza ma, man mano che ti avvicini al suono magari con campionamento di “micro grani” di quello che stiamo ascoltando, avvicinando le orecchie senti micro-variazioni. Ci sono tutte queste assonanze ma per comodità intellettuale ci viene facile dare definizioni alle cose per compartimentarle, ma l’arte è qualcosa che sopra».
Alla Galleria d’Italia di Torino ha esplorato il meraviglioso, sconfinato catalogo di Publifoto che riunisce più di sette milioni di fotografie…
«Sono foto e negativi che raccontano la storia della seconda parte del Novecento, dal costume alla cronaca: il fotogiornalismo era l’internet di oggi. In un lavoro così ampio è difficile mettere a fuoco qualcosa, ma mi sono imbattuto in una foto di un ufficio con una scrivania, e una Olivetti appoggiata sopra. Era un film tutto da raccontare. Non sappiamo chi l’ha toccata, chi era alla scrivania, com’era quel tipo di lavoro. Ho composto un pezzo utilizzando una delle mie Olivetti ma non come uno strumento: l’ho campionata e fatto una piccola composizione su quei suoni, che rappresentano la parte dell’ufficio, del lavoro, dell’impegno, all’interno della quale improvviserò una parte di pianoforte che è la voce interiore dell’essere umano che siede a quella scrivania».
A Napoli è rimasto molto colpito dal lavoro di Vincenzo Gemito…
«Gemito ha risuonato in me perché ha avuto una vita matta e disperata, faticosa: nelle sue opere lo percepisci. È l’esempio perfetto dell’artista che esorcizza la propria sofferenza in quello che crea. In particolare ho scelto il Ritratto di Anna Gemito, la sua seconda moglie, un ritratto dolce ma con la dolcezza delle persone tristi, che diventa melanconia. Gemito è vissuto tra ‘800 e ‘900, gli albori della consacrazione della canzone napoletana, quindi ho scelto un pezzo dello stesso anno del ritratto, il 1886: Suspiranno. Lo suonerò con un’attitudine più contemporanea: a differenza della canzone, che mediamente ha tempi più serrati, voglio diluire le note e l’armonia che le accompagna in un tempo più lungo. Come fermarsi davanti a un ritratto a osservare».
A Torino sta per aprire Sonogramma, uno spazio che metterà insieme la sua musica e i suoi lavori fotografici: a quando l’inaugurazione?
«Apre il 12 ottobre. È uno spazio che racconta questo lato della mia esplorazione, adesso. Entrando in questa piccola stanza che immagino come una specie di piccola pancia, un luogo nutriente, si è avvolti da piccoli suoni: c’è quindi una parte legata alla sound art. E poi c’è una parte fotografica che mi affascina molto: le opere esposte sono due serie fotografiche, Tools, ritratti dei miei strumenti manipolati che si trasformano quasi in tavole di Rorschach. Non ci si accorge di star guardando i pomelli di un sintetizzatore, o i tasti di un pianoforte. Mi piacerebbe fosse un viaggio di deprivazione sensoriale rispetto alla quotidianità, stimolante per il cuore e per l’anima».
Nei suoi lavori con i Subsonica come in quelli da solista, e in tutta la sua ricerca, la tecnologia è sempre stato un elemento importante: quanto pensa sia importante anche per far dialogare la musica con altre forme d’arte?
«La tecnologia fa parte dell’essere umano da quando è diventato tale: tecnicamente il primo flauto d’osso è già uno strumento di tecnologia che serviva per comunicare. Utilizzo la tecnologia come si utilizzava qualche migliaia di anni fa. È uno strumento utile a rimarcare quello che ho bisogno di dire. Queste quattro opere si trasformano in questi concerti, perdono il loro significato materico, si trasportano a un altro livello. È un percorso circolare: un’opera di ispirazione, interpretazione e sonificazione in senso lato, che alla fine torna a una polaroid di ciascuna opera scattata da me, che fotografa la mia visione di quell’opera. Sarebbe stupido non giocare con tutti gli elementi che abbiamo a disposizione».
In gennaio è uscito il nuovo album dei Subsonica Realtà aumentata, a maggio avete vinto il Premio David di Donatello per la miglior colonna sonora del film Adagio, durante l’estate avete girato l’Italia con un tour strepitoso. La band è insieme da quasi trent’anni, cos’è successo di speciale in questi mesi?
«È difficile dirlo. Quello che succede tra noi è quello che succede in tutte le relazioni. Abbiamo sempre scherzato dicendo che è un matrimonio tra cinque persone: già non è facile tra due persone, figuriamoci tra cinque artisti con la propria identità e il proprio ego. Abbiamo vissuto momenti di fatica, a volte più marcati, a volte li abbiamo lasciati sopire, a volte abbiamo portato a termine quello che dovevamo fare anche per un senso di responsabilità nei confronti di chi lavora con noi. Abbiamo scelto di fermarci un pochino e guardarci in faccia mettendo sul tavolo anche quello che non ci piaceva, come una piccola sessione di terapia tra noi: è uscito un bel momento di confessione reciproca, e ci siamo ritrovati a scrivere insieme molto bene. Fare la colonna sonora di Adagio è stato bello per riprendere gli strumenti in mano senza l’esigenza di fare canzoni: lì potevamo comporre ambienti sonori, è stato un momento chiave.
Musica, arte visiva e fotografia: la sua ispirazione viene anche dalla letteratura?
«Sono un grande lettore, ho iniziato a leggere proprio quando ho lasciato l’università di Lettere. Le mie ispirazioni letterarie sono cambiate nel corso degli anni. Gli anni ’90 sono stati belli per la musica e per la letteratura, in America c’era l’hard boiled, in Italia i Cannibali. Ognuno fa le sue scoperte. Magari puoi amare Breat Easton Ellis non tanto per American Psycho ma per Acqua dal sole, che è una raccolta di racconti, e poi la passione rimane. Leggo molta saggistica. A Torino abbiamo la Codice Edizioni che pubblica saggi splendidi: da curiosone indago, cerco e a questo punto della mia vita la saggistica mi dà più soddisfazione, soprattutto le neuroscienze, su come funziona il nostro cervello. Così, scopri che facciamo quasi tutto per egoismo. E poi mi sto riavvicinando ai classici, come le opere di Kandinsky. Se faccio musica non vedo perché non debba leggere un libro di architettura sul pensiero dell’artista. È quello che mi incuriosisce: perché abbiamo bisogno di raccontare, perché l’artista arriva a fare quello che fa».
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