Celebrazioni, commemorazioni, ricorrenze musicali. Questo 2024 ne sta offrendo parecchie. Affidato all’esperienza nella direzione artistica di Giorgio Battistelli, MITO Settembre Musica, il festival di musica classica che si svolge tra Milano e Torino, è tornato a interrogarsi e a interrogare il pubblico sulle ragioni profonde dell’ascoltare e, ancor prima, del comporre musica, oggi come ieri. E in ciò le ricorrenze aiutano. Non a caso l’apertura milanese, dopo quella di Torino nel nome di Beethoven – la Nona, giusto a 200 anni dalla prima esecuzione – è stata segnata dall’omaggio a due grandi musicisti del tempo recente. Luciano Berio e Wolfgang Rihm venivano proposti dalla Filarmonica della Scala e da Riccardo Chailly.
Quatre dédicaces di Berio è una raccolta di gemme orchestrali nate in occasioni e per compagini sinfoniche differenti. Era da tempo che il magico “sequenziare” di Berio non risuonava nella Sala del Piermarini. È stato bello ritrovarlo, antipasto per il centenario della nascita che cadrà l’anno prossimo.
Forte il legame di Chailly con Berio ma anche con Wolfgang Rihm, scomparso settantaduenne il 27 luglio scorso, sicché l’omaggio si è trasformato in un intenso “in memoriam”, e il brano in programma, Dis-kontur (1974), scelto per ricordarlo e inserito nella tournée europea della Filarmonica, un saggio della poetica di questo autore. Lavoro di un ventiduenne, ma già rivelatore, come peraltro il “gemello” Sub-kontur, di personale stile narrativo, costruito su alternanze quasi umorali fra gesti perentori, esplosioni di masse sonore, interiezioni percussive dal un lato, e dall’altro da languido lirismo. Frequenti, e sin da questi esordi, i richiami a musiche preesistenti, che non sono omaggi alla tradizione o semplici citazioni, ma elementi congeniti al far musica di questo autore. Evidenze espressive che la sbrigativa necessità di classificare in categorie estetiche ha usato come pretesti per incasellare Rihm fra i neo-romantici.
In realtà si tratta di un mondo creativo al quale è necessario accostarsi con la migliore disposizione “dell’orecchio interno” – l’espressione di Kandinsky non suoni causale -, giacché oggi questa musica, irta di asperità sonore ma ricca come poche di sfumature e di sapienza nell’orchestrare, non gode dei favori di un pubblico ormai abituato a prodotti precotti e facili da programmare.
Qui invece si richiede, come Chailly stesso ha sottolineato nell’emozionato ricordo che di Rihm ha voluto fare prima dell’esecuzione di Dis-kontur, autentico virtuosismo dei singoli membri dell’orchestra. E la Filarmonica, in tutte le sue sezioni, a partire dalla percussione, ha risposto con bravura e intensa partecipazione.
Coetaneo e connazionale di Rihm ma in piena attività, Heiner Goebbels è stato pure omaggiato nel cartellone di MITO. Ed è stato interessante confrontare nel giro di pochi giorni la poetica di due autori prossimi per provenienza (Karlsruhe e Francoforte, rispettive città natali, distano poco più di un centinaio di chilometri) ma tanto differenti.
A House of Call è una sorta di summa compositiva di Goebbels, un “responsorio laico”, lo definisce l’autore, nel quale l’ascoltatore s’immerge confrontando questo lavoro con il proprio microcosmo auditivo. Proprio come avviene (auspicabilmente, si diceva) in Rihm ma con una dinamica spazio-temporale che si muove in direzione opposta a quest’ultimo, che tendeva verso l’interno, il beethoveniano Inngster Empfindung (“il più intimo sentimento”), laddove in Goebbels il moto è centrifugo, il suono, anche trattato, è grezzo, inclusivo nei confronti di musiche altre, la dialettica voci-orchestra (la Nazionale della Rai, diretta da un ottimo Vimbayi Kaziboni, direttore dello Zimbabwe, ma apprezzato anche in Europa) impone i tempi della meditazione. Non a caso il compositore non si occupava della regia del suono, ma delle luci, ben trovate.
Tanto differenti, Rihm e Goebbels, eppure accomunati da una discendenza forse sin ravvisabile in un capolavoro del primo Novecento musicale che il caso ci ha proposto su un piatto d’argento grazie ad un ascolto occorso negli stessi giorni milanesi. Parliamo dei Gurre-Lieder di Arnold Schoenberg, la cui esecuzione, tornando alle ricorrenze, ne celebrava i 150 anni dalla nascita. Importante – e seguitissima nelle tre serate in programma – riproposta, sempre alla Scala e sempre nelle mani di Riccardo Chailly, felicemente avvezzo alla direzione di grandi affreschi sinfonico-corali; brano che nella sua città aveva già diretto nel 1983.
È proprio il gigantismo di quell’affresco, all’interno del quale il suono percorre un vasto palcoscenico di voci e strumenti, a creare il lievito madre da cui si genera in modo inesauribile la Koiné, lingua comune con le generazioni che seguono, fra cui quella cui appartengono Rihm e Goebbels.
Da Milano a Venezia, ancora un omaggio a Schoenberg, cui s’aggiunge quello per il centenario della nascita del genero (marito della figlia Nuria) Luigi Nono, che alla Fenice con il monodramma Erwartung del primo e La fabbrica illuminata del secondo chiude l’anno di festeggiamenti aperto a gennaio con la riproposta del Prometeo. Tragedia dell’ascolto (qui raccontato).
E da Venezia a Parma, ancora l’accostamento Schoenberg-Nono nel cartellone del Festival Verdi, in corso fino al 20 ottobre 2024. A Survivor from Warsaw, racconto, recitato in musica, di un polacco scampato alla strage operata dai nazisti nel ghetto di Varsavia, e Il canto sospeso, su lettere dei condannati a morte della Resistenza europea, sono pagine di bruciante attualità, create nel giro di pochi anni, fra il 1947 e il ’56. Le corrispondenze testuali e musicali fra il Verdi dello Stabat Mater e quello intimo delle lettere dei condannati messe in musica da Nono, per un verso, e la lode a Dio nel canto del coro maschile in antico ebraico nel testo di Schoenberg, e il Te Deum sempre verdiano, per l’altro, conforta la bontà dell’impaginato.
Lascia perplessi viceversa l’idea di associare all’ascolto di Nono un sia pur intenso video di Shirin Neshat che rappresenta con grande sensibilità l’orrendo gioco fra l’umana umiliazione e la sopraffazione nella dimensione del politico. Certo, si tratta di categorie ben vive nella poetica noniana, ma presenti secondo coordinate estetiche del tutto differenti, agite in una prospettiva fortemente astratta e interiorizzata. E, ulteriore perplessità, in momenti di produzione ben distanti fra loro.
Bella sorpresa invece la presenza sul podio di Maxime Pascal, direttore ancor giovane ma già di riferimento su musiche nuove e nuovissime, che ha regalato una lettura di rara profondità de Il canto sospeso.
Berio, Boulez, Dallapiccola e, a ritroso Ravel, Bellini…altri anniversari per il 2025. Li attendiamo.
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