È da parecchio tempo che le opere d’arte non hanno più a che fare con Dio, almeno da quando le chiese cristiane hanno esaurito le energie politiche e culturali in Europa, riducendo in modo significativo il numero di commissioni affidate agli artisti. Tuttavia, nel mondo dell’arte e tutt’intorno a esso, si dibatte ancora molto di estetica, facendo ampio uso di categorie assolute e universali. Così molti critici d’arte, addetti ai lavori, artisti e collezionisti legittimano la produzione del proprio discorso interpretativo sulla base della constatazione di un presunto potere riflessivo degli artefatti, sulla loro capacità di creare aperture di senso tali da cogliere in un unico colpo d’occhio sincretico questa o quella verità storica, morale o estetica. D’altra parte, il museo o la galleria rappresentano spesso per gli appassionati d’arte un luogo
sui generis in cui, di fronte all’oggetto d’arte, è possibile esperire un rapporto nuovo tra la nostra soggettività e il mondo esterno, una specie di rivelazione dell’alterità nel gioco autoreferenziale del pensiero.
Tuttavia, se proviamo a interrogarci su che cosa sia un oggetto d’arte al di fuori di questi luoghi convenzionali e storicamente codificati, le cose sembrano stare diversamente, a partire dalle immagini appese alle pareti di una qualsiasi abitazione fino a considerare la grande quantità di cd e dvd che affollano le nostre case o la musica trasmessa quotidianamente dalla radio e dalla televisione. Se poi rivolgiamo per un attimo la nostra attenzione alla tecnologia mobile, allora ci troviamo costretti a contare tante opere d’arte quanti sono gli oggetti che ne contengono, in qualche modo, un riferimento.
Certo, è vero: i musei e le gallerie ospitano degli originali, mentre per la maggioranza i quadri presenti nelle case sono solo riproduzioni e, in quanto tali, appaiono dotati di uno statuto ontologico minore rispetto all’originale, che invece sembra starsene là tutto raccolto in sé stesso, come in attesa di manifestarsi nell’atto della fruizione a un soggetto dotato di intelligenza (più o meno è quello che Benjamin indicava con il termine “aura”).
Ma questo non vale allo stesso modo per tutti gli artefatti. Che cosa dobbiamo pensare allora di tutti quegli altri oggetti d’arte che utilizzano una materia non visiva? Nel caso della letteratura, della musica, del teatro, delle reti l’idea dell’originale perde completamente il suo preteso valore normativo e il contenuto sembra confondersi con il mezzo. Sembra davvero impossibile pensare a un suono al di là della sua reale produzione fisica. La musica, in quanto sistema ordinato di suoni, è per sua natura sempre e solo fruibile attraverso una particolare esecuzione e non esiste al di fuori della riproduzione: è abbastanza raro, infatti, trovarsi tutti insieme, in uno spazio pubblico, ad ammirare uno spartito o roba simile. Eppure, anche l’esecuzione, e con essa tutto ciò che potremmo raccogliere sotto la categoria “arte performativa”, non ci dice proprio nulla di essenziale sugli artefatti. Se potessimo sfogliare gli archivi dei nostri computer come fossero un’unica gigantesca libreria ci troveremmo di fronte a una quantità inimmaginabile di suoni di ogni tipo e formato: estratti di brani, campionamenti, resoconti audiovisivi, suoni di oggetti, concerti e registrazioni dal vivo di concerti, colonne sonore, remix e così via. Allo stesso modo, chiunque abbia partecipato almeno una volta a un festival di arte digitale non troverà per nulla strano il fatto che molti artisti siano soliti presentare al pubblico il loro lavoro attraverso l’uso della tecnologia mobile, con la Rete o con l’ausilio di strumenti molto comuni, in cui l’elemento performativo è davvero ridotto al minimo. E tutti quanti a fare foto con il cellulare e uploadare su Flickr. Jay David Bolter e Richard Grusin, in un saggio apparso una decina d’anni fa, hanno voluto definire tutto questo
rimediazione, per indicare il processo di citazione e rimozione infinita innescato dai mezzi di comunicazione, ovvero l’idea che ogni media ha come contenuto altri media. Sennonché il fatto che l’arte e i suoi oggetti siano descrivibili in termini di comunicazione rimane comunque molto discutibile.
D’altra parte, oltre quarant’anni fa il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer aveva proposto di riabilitare il valore conoscitivo dell’arte contro l’estetica del gusto e gli esiti soggettivistici della riflessione kantiana. Oggi, in effetti, molte riflessioni sugli artefatti nascono a partire dalla constatazione che l’arte ha a che fare direttamente con il mondo esterno al soggetto, un mondo reale fatto di corpi fisici e sociali, oppure che essa è una forma autonoma di conoscenza in grado di offrire nuove modalità di fruizione dello spazio sociale e occasioni di riflessione sulla sua trasformazione per intervento degli artefatti stessi. In ogni caso, resta da chiedersi quanto sia davvero importante pensare a che cosa è o non è un’opera in generale, dato che abbiamo sempre a che fare con dei singoli casi o, ancora, quanto sia utile elaborare criteri normativi per la definizione di questo o quell’oggetto. Che cosa fa allora un soundscapist quando registra gli eventi sonori presenti in un determinato contesto spazio-temporale? È sufficiente sapere che, in questo modo, sta descrivendo le caratteristiche soniche di quell’ambiente attraverso la risonanza dei suoi elementi fisici? E allora? Di che cosa si tratta?
Forse potremmo accontentarci di sapere che un artefatto deriva sempre da una serie di operazioni che ne fanno una cosa funzionante e, per così dire, una specie di funzione esso stesso; o che il lavoro dell’artista è anche un intervento sulla materia. Forse potremmo interrogarci con più ironia sul rapporto fra il totale e le parti e magari, come sosteneva l’artista brasiliano
Hélio Oiticica in un cortometraggio di Ivan Cardoso a lui dedicato, dovremmo
“provare, come prima cosa, a liberarci dall’idea della bellezza”.