Per farsi un’idea dell’estensione e del ruolo che la composizione musicale occupa nella nostra società oggi si può partire da un’esperienza alla portata di tutti. Sarà capitato almeno una volta a ciascuno, sfogliando il menu del nostro telefonino, di imbatterci in una figura molto particolare: il compositore. Anche se il termine ci sembra subito familiare, in questo caso non ci troviamo di fronte a una persona che fa qualcosa e, tanto meno, a quello che facciamo noi con i tasti del nostro telefonino mentre cerchiamo di riprodurre alla perfezione la nostra hit preferita. Qui il compositore sembra invece indicare emblematicamente una funzione, un’operazione. Ma non c’è da sorprendersi troppo.
Di fatto la storia della musica e quella della notazione non coincidono affatto e, anzi, sembrano muoversi su piani differenti e addirittura rispondere a domande differenti: quando un insieme di suoni è gradevole all’ascolto? Oppure: come faccio a rappresentare graficamente i suoni e i loro rapporti? C’è una bella differenza. Non a caso il teorico e compositore americano
Morton Feldman descrive la composizione come un
fare dei piani e la musica come un
sorriso.
La nostra tradizione musicale è fondata sul rapporto uomo/natura e concepisce la produzione del suono connessa con il simbolismo naturale -l’imitazione degli animali (“canta come un usignolo”) il soffiare del vento piuttosto che lo scorrere dell’acqua o il fragore del tuono e così via– e la notazione come rappresentazione delle altezze e della durata in un sistema di tipo cartesiano. Se è vero che esiste un percorso storico segnato da importanti innovazioni circa il modo di organizzare il materiale sonoro, è altrettanto vero che solo nel corso del Novecento la notazione diventa un problema estetico e semiotico centrale, tanto nella teoria quanto nella pratica artistica. Nel ventennio tra il 1950 e il 1970 vengono sperimentate numerose forme di scrittura musicale nate dall’esigenza di aprire le frontiere della rappresentazione grafica alle nuove idee temporali di simultaneità, reversibilità, alla combinatorietà degli elementi o a concetti come
campo, inizio, nodo. Il manuale Radatti del 1975 individua ben tredici modi diversi per notare le durate.
D’altra parte, lo studioso Stephen Kern, analizzando alcuni elementi di trasformazione della società tra Otto e Novecento, afferma che
“Nel periodo che va dal 1880 allo scoppio della prima guerra mondiale una serie di radicali cambiamenti nella tecnologia e nella cultura creò nuovi, caratteristici modi di pensare e di esperire lo spazio e il tempo”. E le analisi di Minkowski sulla percezione clinica dello spazio e del tempo e sull’esperienza schizofrenica della distanza inaugurano un fecondo filone di riflessione interdisciplinare sulla percezione e la natura del tempo.
La notazione tradizionale, quella che fa riferimento alla posizione della nota su cinque righe e che si studia nella maggior parte dei Conservatori (non esiste nome più appropriato), è qualcosa di talmente superato –e non nel senso di una tendenza, ma radicalmente- da non suscitare altro interesse che non sia puramente archeologico o, appunto, conservativo e di trasmissione di un patrimonio.
Per convincersene basta osservare una qualsiasi partitura disegnata dopo il 1950: il riferimento a un più ampio mondo simbolico dove regolette e segni diventano il centro di strutture formali complesse e rigorose è senz’altro evidente anche per colui al quale queste appaiano incomprensibili. Spesso infatti la notazione contemporanea si muove all’interno di orizzonti ideografici e semiografici estremamente complessi o sul confine con la pittura o il fumetto, come per esempio in
Sylvano Bussotti o nel caso di
Stripsody, di
Eugenio Carmi.
Ma proviamo ancora a riflettere brevemente su un’altra facile esperienza. Chiunque abbia utilizzato uno dei tanti popolari sequencer in commercio come Logic o Cubase sa che non è affatto necessario conoscere il sistema musicale temperato per scrivere qualcosa. E questo non solo per il fatto che il software lavora per noi, ma anche e più esattamente perché si ha a che fare con oggetti e parametri in grado di definire possibilità espressive pressoché illimitate, oltre che con un sistema di suoni non necessariamente generato da un’attività umana. È interessante notare come gli
Elektronische Studien di
Stockhausen siano straordinariamente simili, graficamente, alla timeline di uno qualsiasi di questi comunissimi software.
Al di sotto della veste grafica disegnata per un utenza sempre in crescita, ci sono poi il codice e la grammatica. Allora la composizione si risolve interamente nell’azione del programmare o in quella che Pierce definisce
azione segnica. È questo per esempio il caso di software più specialistici come Max/MSP, Csound, SuperCollider o di linguaggi come Phyton, C++ e altri sistemi algoritmici di composizione rispetto ai quali la computer music è il contenitore naturale, dalla musica pop all’improvvisazione alla musica generativa.