Nel suo
Verità e Metodo, Hans-Georg Gadamer descrive
l’essere umano come quell’essere che, attraverso il linguaggio, ha un mondo. Il
mondo a cui si riferisce Gadamer è cosa ben diversa dalla Terra: gli appare
come un’insieme linguistico che si dona autonomamente agli esseri umani,
organizzando il dialogo e creando il senso. La Terra invece sta al di fuori del
mondo, richiama il naturale, l’originario e il pre-umano. Il mondo, nonostante
la sua eccedenza ontologica, è una cosa dell’essere umano. Uno è cultura,
soggetto; l’altra è natura, oggetto.
Le moderne tecnologie di
registrazione mobile tendono a eludere lo scarto fra questi due piani
dell’essere, afferrando le cose fenomenologicamente, prima e al di qua di
questa opposizione e restituendole in qualche modo come sempre originarie, mai
finite. Probabilmente, per Gadamer, la verità dell’arte sarebbe già sufficiente
in se stessa a superare un simile dualismo, ma anche la tecnologia in fondo
deve possedere una sua fantasia e contenere in sé la possibilità di una storia,
di un pensiero, di un’archeologia.
L’interesse dell’arte visiva e
della musica per gli sviluppi più recenti della tecnologia mobile è in
crescita. E un numero sempre maggiore di musicisti sembra attratto dalla
possibilità di ascoltare il suono della “terra”, fuori dal “mondo”, e di
confrontarsi con una rinnovata mimesi della natura.
L’utilizzo di suoni
extra-atmosferici in musica è un fatto della seconda metà del Novecento, reso
possibile dalle missioni delle sonde Voyager e dalla diffusione della
radioastronomia, alimentato dal cinema e dalla letteratura sci-fi.
Ma esistono anche casi di mimesi
involontaria, come accade nella musica di
György Ligeti in cui, senza nessun legame
manifesto, di tanto in tanto compaiono strutture e suoni incredibilmente simili
a segnali cosmici registrati per scopi scientifici. La cascata scintillante di
flauti che avvia la chiusura del secondo movimento del
Concerto per Violino
e Orchestra del
1992, per esempio, potrebbe richiamare in modo sorprendente i
whistler dai fulmini lungo l’asse magnetico
terrestre.
Resta comunque il fatto che
l’integrazione di fenomeni naturali cosmici in musica e l’uso di file
multimediali generati da strumenti di ricerca scientifica è una tendenza
artistico-tecnologica nuova. La mappa della Radiazione Cosmica di Fondo,
ricavata dal satellite Wmap, è sicuramente una delle immagini del nostro tempo
e negli ultimi quindici anni sono stati raccolti suoni incredibilmente lontani,
come le emissioni radio a bassa frequenza prodotte nell’eliosfera ai confini
del sistema solare, oppure le perturbazioni dell’atmosfera di Giove.
Naturalmente si tratta di brevi
campioni udibili e ascoltare (registrare) i suoni dello spazio rimane in
generale una cosa piuttosto difficile. Inoltre, accade spesso che le
registrazioni siano sottoposte a editing massiccio, mentre altre volte i suoni
sono interamente sintetizzati in studio da sound designer sulla base di analisi
effettuate sull’immagine dell’originale.
Ma c’è chi ha saputo
accontentarsi. Nel 2003 il compositore californiano
Terry Riley collaborò con il professor Don
Gurnett dell’Università dell’Iowa a un progetto musicale,
Sun Rings, in cui venivano usati suoni
dello spazio. In scena, l’ensemble
Kronos Quartett integrava gli archi con
registrazioni di onde radio e plasma, sui visual di
Willie Williams.
Meno vicino al lato della mimesi e
più fedele a quello immersivo multimediale, il gruppo audiovisual
Semiconductor
concepì nel 2006,
in collaborazione con alcuni osservatori astronomici,
Brillant Noise, realizzato interamente con
materiale scientifico e documenti audiovideo di flares e altri fenomeni della
superficie solare.
Anche la Sound Art s’interessa allo spazio e l’impiego di
antenne, accelerometri e altri strumenti scientifici atti a registrare fenomeni
atmosferici o di vibrazione del substrato è un argomento relativamente diffuso.
Da un punto di vista soggettivo, lo spazio continua ad
alimentare generi musicali come la drone music, l’ambient e il rock
sperimentale. Il big bang sonoro e l’intreccio senza fine del sassofono di
John
Coltrane con le
percussioni di
Rashid Ali, immortalato nel 1967 nell’album
Interstellar Space è da questo punto di vista – con
Ligeti – ancora un caso emblematico: esiste un rapporto privilegiato tra suono
e natura cosmica, tale da esprimersi dall’interno, senza il supporto della
tecnologia.
Il crescente livello d’interesse si può anche misurare sui
network sociali; esiste un profilo su last.fm intitolato alla Nasa, che
funziona come catalizzatore delle band e dei tag più bizzarri, e su Youtube
circolano le tracce del cd
Jupiter: Nasa Voyager 1 & 2 Space Sounds del 1990, tanto seducenti quanto
ambigue, in cui si ascolta il suono emesso dai pianeti del sistema solare.
Magari.