La complessa programmazione del
Transmediale si è snodata fluida tra i giorni e le notti invernali all’Haus der Kulturen der Welt, nei club e nei cinema di Berlino. Impossibile seguire per intero la programmazione del festival: ogni giorno decine di proiezioni, conferenze, workshop, installazioni, concerti e performance di ogni tipo; un’offerta tale da appagare sia l’esperto sia il neofita.
Il tema di quest’anno,
Deep North, pone interrogativi importanti connessi con lo sfruttamento delle risorse naturali, il territorio, l’inquinamento atmosferico, cercando di focalizzare il ruolo e i contributi possibili della New Media Art per lo sviluppo di una coscienza ecologica mondiale, più salda e informata. Argomento difficile e rischioso, se si tiene presente il consumo tecnologico ed energetico dell’arte digitale. Ma è questo il punto. Quale rapporto tra tenologia e natura?
Le proposte sono numerose ma l’impressione generale è di trovarsi di fronte non a opere vere e proprie, ma a semplici nomi, terminologie, parole chiave pronunciate per catturare qualcosa che sembra tuttavia sfuggire di mano alla maggior parte degli artisti e dei ricercatori invitati. Dalle conferenze così come dai dibattiti emergono immagini confuse, in bilico tra un nominalismo vuoto e una retorica troppo poco affascinante.
Ma è difficile dare un giudizio ponderato sulla parte “verbale” del festival; meglio concentrarsi sulle opere. Tra queste spiccano
Six Apartments e
Beyond the End – The Polar Project, la prima un film multischermo di
Reynold Reynolds, già all’Emaf lo scorso anno e qui menzione speciale, il quale affronta il tema dell’ecologica con intensità, stile e senza retorica e connessioni o forzature pseudo-scientifiche; la seconda, di
Charly Nijensohn, è un’installazione video in cui compaiono delle figure umane ordinarie, silenti, immobili, dritte in piedi in mezzo ai ghiacci del mare polare, come in un miraggio.
Ma a parte questo e pochi altri esempi isolati, l’esposizione è un po’ sofferente. Se il festival
Transmediale è un buon osservatorio sul panorama dell’arte digitale, e lo è, allora stiamo assistendo a uno strano fenomeno di positivismo, per cui l’unico obiettivo è attirare l’attenzione mettendo in luce la massima connessione possibile tra arte e scienza. L’effetto è un po’ fieristico, circense, natalizio, come sottolinea emblematicamente la performance
Specialità di silicio di
Urs Dubacher, il quale quotidianamente arrostisce in padella e sforna al saldatore torte di microchip, fusibili e altri squisitezze hardware.
Anche gli audio-visual presentati all’Hkw mettono al centro soprattutto il binomio tecnologia-natura, con un accento particolare sull’esperienza fisica del suono e della luce.
Untitled Sound Object, di
Pe Lang + Zimoun, lavora sulle vibrazioni meccaniche, amplificando il suono di piccoli oggetti di taglia e consistenza diversa posti su superfici trasparenti. Una tavola molto ben imbandita per un pasto forse un po’ troppo leggero.
Decisamente più interessante
Sonolevitation, di
Evelina Domnitch e
Dmitry Gelfand +
Maurizio Martinucci (aka TeZ), che mette in sospensione aerea sottilissime sfoglie di metallo su un’onda a bassa frequenza generata e controllata dal software. L’attrito del materiale con l’onda sonora produce un moto oscillatorio fragile e interattivo che si traduce in una variazione della frequenza, delle fasi e dei cicli della sinusoide, e in una visualizzazione suggestiva e originale del suono. Un bell’esperimento, molto ben curato anche dal punto di vista coreografico. L’audio-visual
Magma, sottotitolato
Una contemplazione in un fiordo norvegese, ha bei suoni quadrifonici generati dal vivo che commentano un’unica ripresa di campo, uno scorcio alle Lofoten, in un percorso audiovisivo che muove dal semplice all’astratto, per poi ritornare e spegnersi. Ma il pedale continuo sul fondo, l’unica nota suonata da un sax baritono e processata all’infinito, la staticità delle riprese e la durata della performance – 60 minuti – sembrano interminabili.
All’Auditorium tocca al giapponese
Ryoichi Kurokawa e a
Telecosystems. Il primo si presenta con un progetto monumentale
Parallel Head, concepito per quattro schermi e quattro laptop (multicanale?) che conquista il pubblico in sala con suoni da sound fx da genere teen horror, un montaggio di immagini ad alta risoluzione che ammicca all’estetica generativa e sincronie audio-video sottolineate pesantemente: come stare al luna park. Alla stessa altezza il secondo lavoro,
Mortals Electric, che gioca sull’effetto psicofisico provocato dall’ascolto di basse frequenze estremamente amplificate associate con immagini cromatiche e caleidoscopiche, ma senza riuscire a superare il dato di fatto che diffondere suoni oltre un certo volume genera una forte pressione nell’aria.
Piacevoli i concerti al Ctm, nel clima informale e festaiolo del club Maria Am Ostbahnof, fino a tarda notte. Lo show di
Raster Noton è sempre lo stesso, ottimo e inconfondibile, mentre
Mudboy fatica a ripetere l’eccitante esperienza di
Netmage, a causa dello spazio ridotto della saletta in cui deve performare.
Oren Ambarchi suona al limite della saturazione, perfetto, controllatissimo e consapevole. Belli ma non sempre coivolgenti i concerti nella sala più grande, che alternano noise, psichedelia, techno, turntablism e altri generi, ma gli orari si incrociano e non è possibile seguire tutto con la stessa attenzione.
Gli artisti di
transmediale.09 sembrano aver preso un po’ troppo sul serio il mezzo piuttosto che l’idea. Comunque, al di là dell’opinione del singolo, il bilancio è sicuramente ottimo per un festival organizzato bene sul piano della comunicazione e degli spazi, concepito come un potente servizio di cultura pubblica, apprezzato da un folto pubblico, e tale da offrire per dieci giorni consecutivi un flusso di stimoli che vanno dritti alla corteccia, passando per i cinque sensi.