Se Vilém Flusser avesse potuto
essere presente all’Haus der Kulturen der Welt di Berlino nei giorni di
Transmediale.10 sarebbe stato contento di poter
finalmente visualizzare le proprie stesse idee, anziché doverne – ancora una
volta – scrivere. In un percorso teorico che va dalle riflessioni precoci di Walter
Benjamin, attraverso le teorizzazioni di Roland Barthes, Susan Sonntag e Gilles
Deleuze fino allo stesso Flusser, Transmediale.10 rivolge lo sgurado al futuro
immaginato e vissuto nel presente; all’immagine come scrittura e superamento
della scrittura, il suo straordinario potere semantico, lo status
dell’individuo-utente e la sua possibile evoluzione sociale in ciò che Flusser
definirebbe probabilmente l’“
utenza consapevole”.
Il futuro messo in scena a
Transmediale.10 non è il futuro cronologico ma, piuttosto, l’idea di ciò che è
futuribile, ovvero ciò che
ha (detiene) il presente. Concetto discutibile e a volte, se
sviluppato in modo superficiale, anche piuttosto rischioso – per non dire
totalitario – ma sicuramente molto affascinante. In ogni caso, il risultato è
un programma molto più ricco di quello dell’anno precedente, impreziosito da
un’atmosfera autenticamente filosofica che procede, come in un sistema
complesso, dal visivo al mentale senza alcun apparente soluzione di continuità.
È soprattutto la performance di
Ryoji
Ikeda all’Auditorium dell’HKW, così come la sua opera
data.tron installata su tre schermi giganti
nella collettiva, a utilizzare l’immagine come scrittura. Il codice innesca
connessioni semantiche inafferrabili, generando se stesso come immagine e il
senso della presenza di uno stato mentale permanente. Lo stesso accade di
fronte a
White Noise dell’artista lituano
Zilvinas Kempinas, il quale però crea un
audio-visual immersivo illusorio con il solo ausilio di nastri vhs, luci e
ventilatori: da vedere per capire.
A Parallel Image di
Gebhard Sengmüller è una scultura estremamente
seducente e complessa, in grado di trasmettere informazioni visive atraverso
migliaia di cavi e un sistema camera/monitor fatto a mano, mentre proprio
dietro l’edificio dell’HKW nasce il fascio laser multicolore di
Yvette
Mattern,
From
One To Many, che
attraversa la città regalando scorci cangianti di estremo effetto, godibili
soprattutto nel tragitto in autobus che da Alexanderplatz conduce alla venue
del festival.
La performance di
Jürgen Reble
& Thomas Köner,
intitolata
Materia Obscura, è un lavoro intenso realizzato su pellicola lavorata
chimicamente e poi rieditata in digitale, che si sviluppa a partire da un
nucleo puntiforme fino a formare immagini astratte molto pittoriche
accompagnate da un continuum sonoro in lenta trasformazione.
Sempre all’Auditorium,
POWEr, ideato dal duo canadese
artificiel, rende omaggio al genio di Tesla
utilizzando un suo prototipo di bobina come unica fonte sonora e visiva. I
suoni prodotti dai fulmini controllati dal duo attraverso un proprio sistema
elettronico e informatico sono sorprendenti, mentre l’elaborazione live dei
dati, le immagini proiettate e il tentativo di comporre strutture musicali a
partire dalle sorgenti appaiono a tratti forzati e un po’ kitsch.
Al Caffé Stage,
Rachida
Ziani & Dewi de Vree allestiscono il loro
Elektrolab, un autentico laboratorio
scientifico-sonoro in cui vengono esplorate le potenzialità sonore della
rudimentale pila di Alessandro Volta, ricostruita e operata dal vivo come un
gigantesco sintetizzatore elettrolitico.
Fra i temi affrontati
all’Auditorium nella lecture
Ideologies and Futures of the Internet, sono molto interessanti la
presentazione del fisico e matematico Conrad Wolfram, che parla in modo chiaro
e lucido dei vantaggi didattici e conoscitivi offerti dallo sviluppo del web semantico,
e quella dell’attivista e blogger kenyana Juliana Rotic, la quale offre una
panoramica sul rapporto tra potere e tecnologia, povertà e sviluppo,
nell’attuale contesto politico-sociale africano.
Piuttosto deludente invece, se
messo a confronto con le aspettative, l’intervento di Bruce Sterling nella
conferenza intitolata
Atemporality – A Cultural Speed Control?. Sterling enuncia il suo discorso
con toni profetici, trattando dichiaratamente il tema dell’atemporalità al di
fuori di ogni riferimento filosofico al post-modernismo o -strutturalismo,
senza tuttavia riuscire a liberarsi da quelle vecchie reti concettuali, nelle
quali anzi rimane facilmente impigliato. Il discorso entusiasta dello scrittore
suona poco convincente di fornte a definizioni come avanguardia e cyberpunk,
concetti in se stessi già storici prima ancora che culturali. L’intervento nel
suo insieme appare in definitiva visibilmente scosso dalla stessa temporalità
che vorrebbe sollevare con una scrollata di spalle, oltre che dalle parole di Siegfried
Zielinski, professore di archeologia dei media all’Udk di Berlino che parla
dopo Sterling, definendolo, a ragione, un paleontologo, e concludendo così il
suo stimolante discorso sul rapporto tra tempo, arte e percezione.
Al Collegium Hungaricum Berlin,
nel contesto questa volta di
Club Transmediale, si parla di audio-visual con la
conferenza tenuta da
Jesper N. Jørgensen e intitolata
sound and art – an institutional
perspective, in
cui l’audio-visual generativo viene celebrato al contempo come forma vincente
tra le diverse discipline audiovisive e come direzione prossima della sound art
e, in qualche modo, della musica stessa. Un interessante punto di vista, che
s’interroga senz’altro sul futuro della videoarte, ma non risponde al quesito:
è l’evoluzione del linguaggio curatoriale a influenzare la pratica artistica o
viceversa?
Comunque, eccezion fatta per le
conferenze, una nota di demerito va all’organizzazione di Ctm nel suo insieme,
con un programma un po’ circense e numerosi difetti logistici, come nel caso
dell’attessissimo concerto di
Charlemagne Palestine al Französische Dom. Gestito come
allo stadio, con doppie e triple code, spintoni, nervosismi e una totale
assenza di comunicazione da parte dell’organizzazione, non è possibile entrare
nemmeno se giornalisti, come è capitato a noi, o dopo aver sopportato ore di
coda al freddo, come è accaduto alla numerosa fila di spettatori paganti a cui
sono stati chiusi in faccia i battenti del Duomo. Ritardo del concerto, dal
momento che lo stesso Palestine si è inizialmente rifiutato di suonare se non
fosse entrato tutto l’audience, e ritardi e confusioni anche per altri artisti,
come nel caso di
Hildur Ingveldardóttir Guðnadóttir, che ha dovuto suonare quasi in contemporanea
a Ikeda perdendo quasi tutto il pubblico, e di altri musicisti oscurati dal
caos del programma. Il concerto di
Keiji Haino non è male, anche se c’è poco
pubblico, la sessione sembra interminabile e il chitarrista risulta a tratti
più un tardo radical che un autentico noiser.
Fortunatamente al Club Wfm, che
quest’anno rimpiazza il Maria am Ostbahnof, c’è anche il contest dell’olandese
Steim, il centro di ricerca e sviluppo
di strumenti performativi per le arti elettroniche diretto da Jan St. Werner
dei
Mouse on Mars con sede ad Amsterdam, in cui si esibiscono il compositore e cantante
Alex
Novitz con una
brillante improvvisazione per voce, computer e remote control,
Dj Sniff con un collage free jazz per
piatti e Max/Msp, il field recordist
Justin Bennett, con una performance molto
poetica di ascolto e scrittura, narrata sul filo sottile della memoria e infine
Tok Tek, con
un set fresco e genialoide che coinvolge numerosi oggetti, strumenti
autocostruiti, computer e ci ricorda il migliore
Aphex Twin.